Cinquant'anni fa, nel 1971, usciva un disco di un cantautore quasi sconosciuto, Don McLean, ma che avrebbe avuto un successo planetario, "American Pie"
Che cosa significa il testo di American Pie? “Significa che non devo più lavorare”. Così Don McLean rispose a un giornalista che gli chiedeva dei mille riferimenti, personaggi, allusioni contenute in una delle più celebri canzoni della storia della musica popolare, inclusa nel suo secondo disco uscito cinquant’anni fa, dal titolo omonimo. Ovvio, quella canzone vendette e ancora vende milioni di copie, assicurando al suo autore incassi da capogiro.
Un brano della durata di quasi dieci minuti, tutto il contrario di quello che era necessario per il formato radiofonico, cioè circa tre minuti al massimo, cosa che permetteva quasi sempre l’automatico successo. Ma i tempi, nel 1971, erano cambiati: già Bob Dylan con i sei minuti di Like a rolling stone nel 1965 aveva fatto a pezzi quella barriera. Ormai il formato del 45 giri era superato, il disco si comprava tutto intero, spesso erano pensati come concept cioè canzoni legate fra loro da una trama, vedi Tommy degli Who, e comunque i ragazzi volevano di più, volevano molte canzoni, non si accontentavano più del formato usa e getta del singolo (cosa invece che oggi è purtroppo tornata a essere di moda).
American pie nonostante la sua lunghezza fu immediatamente un successo formidabile che portò il disco in cima alle classifiche di tutto il mondo. Sia per la melodia accattivante, sia per il ritornello che consegnava alla storia uno dei detti rimasti per sempre nell’immaginario collettivo: “The day that music died”, il giorno in cui la musica morì. Quel giorno era il 3 febbraio 1959, quando Buddy Holly, la nuova stella nascente del rock’n’roll, giovanissimo, morì nello schianto dell’aeroplano che doveva portarlo a un nuovo concerto. Con lui un altro eroe emergente della prima ondata del rock’n’roll, ancora più giovane, Richie Valens, l’autore del grandissimo successo de La Bamba, il primo brano cantato in spagnolo ad arrivare ai vertici delle classifiche americane. Una tragedia che segnò il mondo della musica e che segnò, almeno fino all’arrivo di Beatles e Rolling Stones, la musica popolare: il giorno in cui la musica morì.
Da quell’episodio Don McLean, un solo disco precedente all’attivo, cantautore proveniente dalla scena folk, costruì una visionaria saga in cui mise insieme tutti gli avvenimenti e i protagonisti della storia del rock fino ad allora, da Bob Dylan a Janis Joplin, per dedicare un’ode a quella musica che aveva cambiato il mondo: “Do you believe in rock ‘n’ roll Can music save your mortal soul?”, credi nel rock’n’roll, può la musica salvare la tua anima mortale’”. Sì, ci si credeva allora, e per tantissimi era così.
Nonostante un goffo tentativo di Madonna con una versione (ridotta) in chiave dance per la colonna sonora del film The next big thing del 2000, la canzone ha resistito e ancora oggi è un mistero amato da tantissimi.
La canzone parla di una perdita di cose, valori, idoli nell’America degli anni Settanta rispetto al decennio precedente, ma il testo è fatto di molte metafore e allusioni che McLean non spiegò mai chiaramente, dando spazio a cinquant’anni di fantasiose speculazioni dilagate su internet, benché alcuni personaggi – Dylan, i Beatles, Charles Manson e altri ancora – siano stati individuati tra i versi della canzone. Ma non è quello l’importante. Come ogni grande canzone rock, anche American Pie ha il suo punto di forza nella fantastica trascinante melodia e il connubio di parole.
Rob Stoner, da noi contattato, bassista poi passato alla storia per aver partecipato alle registrazioni di Desire di Bob Dylan qualche anno dopo e per essere stato il suo band leader nella travolgente carovana rock della Rolling Thunder Revue, e che partecipò all’incisione di American Pie, ci ha detto: “Ed Freeman, il produttore, mi aveva ingaggiato per alcuni album in precedenza, incluso il primo disco di McLean, Tapestry. Mi chiamò di nuovo. L’approccio di McLean era molto professionale ed era facile lavorare con lui. Mi suonò American Pie, la canzone, a casa sua e sembrava essere molto ambiziosa e complessa dal punto di vista dei testi. Durante l’anno tra il primo e il secondo album, ha continuato a lavorarci, cambiando il testo. Non ci disse nulla a proposito della lunghezza. L’abbiamo suonato dal vivo in studio e la durata non è stata un problema per la band di professionisti assunti da Freeman. Don e Ed sapevano che ero un cantante affermato, quindi mi hanno chiesto di sovraincidere la parte dei cori. Il disco sarebbe stato un successo, indipendentemente da chi lo avesse prodotto. Ciò che questo disco significa per me oggi è che ricevo ancora piccoli pagamenti annuali dall’Unione dei musicisti. Inoltre è bello aver fatto parte di una registrazione storica che ha avuto un significato culturale duraturo”.
Ma American Pie, il disco, non è solo la canzone che lo intitola. Contiene altre gemme, più rivolte a un cantautorato intimista e triste, similare per certi versi a quello di Leonard Cohen. Su tutte, un brano di una bellezza stratosferica, Vincent, dedicato al pittore olandese Van Gogh e a tutti quelli che soffrono di malattia mentale.
Come un coltello piantato nel cuore, che gira e rigira a fondo nella ferita, sempre più a fondo, un coltello piantato da qualcuno nel nostro cuore per dirci che no, non siamo fatti per questo mondo. Il dolore di chi non è stato capito mai dagli altri suoi simili nonostante gli sforzi: guardate che coltello ho nel cuore, sanguino, perché non lo vedete? Ce lo avete anche voi, ma siete bravi a far finta di niente.
Ma ora capisco quello che hai cercato di dirci, canta McLean con una empatia profondissima, come hai sofferto a causa della tua sanità mentale, come hai provato a liberarli, ma non ascoltavano, non sapevano come. Forse adesso ascolteranno. E capiranno che una persona meravigliosa come te non era fatta per questo mondo.
Nessuno lo è. Siamo gettati qui, non per nostra scelta. Non decidiamo quando nascere e quando morire. Tu sì, hai deciso quando lasciare questa terra. Per tutta la vita ne avevi raccontato l’immensa bellezza. E quando nessuna speranza è rimasta in quella notte stellata ti sei tolto la vita, come spesso fanno gli amanti.
Nelle canzoni, ma non solo, i malati di mente sono trattati superficialmente, banalmente. Quasi a voler discolparsi per la nostra incapacità di capire cosa sia veramente la malattia mentale: i “pazzi”, quelli che hanno capito tutto, quelli che rifiutano leggi e convenzioni. Eroi e santi. Persone addirittura felici. Non è così. Un malato di mente non è felice per niente della sua condizione. Soffre di un dolore indicibile. La separazione, la distruzione della sua persona, l’incapacità a riconoscersi, il semplice guardarsi in uno specchio rifiutato e distrutto. Ma i malati di mente danno fastidio, perché ci mettono in crisi. Allora li santifichiamo, convinti di aver fatto un grande gesto, e ce ne andiamo per la nostra strada. Nessuna legge Basaglia li ha liberati dalla loro prigionia.
Per tutti noi che crescevamo negli anni 70 Vincent di Don McLean era la sigla tel telefilm poliziesco Lungo il fiume e sull’acqua, andato in onda nel gennaio 1973. Quella canzone risuonò in tutte le case italiane con la sua immensa malinconia e tutti si chiesero: ma chi è Vincent? “Nell’autunno del 1970 lavoravo insegnando musica in una scuola. Ero seduto in veranda una mattina, leggendo una biografia di Van Gogh, e improvvisamente ho capito che dovevo scrivere una canzone per spiegare che non era pazzo. Aveva una malattia e anche suo fratello Theo. Questo lo rese diverso, nella mia mente, dalla consuetudine generalmente definita di “pazzo”, perché fu rifiutato da una donna [come si pensava comunemente]”. Già: il desiderio di felicità assoluta è quello che fa pensare alla gente che si considera “normale” che gli altri siano pazzi, perché soffrono troppo. E nella vita non va bene soffrire. Bisogna far carriera, costruirsi una famiglia, osservare le regole, contribuire allo sviluppo della società.
La canzone del cantautore americano simpatizza con il gesto estremo di Van Gogh, come a dire, hai fatto qualcosa di sano in un mondo folle. Perché è difficile, maledettamente difficile venire a patti con questo mondo, con la gente che ci circonda. La gente è cattiva. Solo la voce e un delizioso arpeggio di chitarra e nel finale un accompagnamento orchestrale soffuso. Canzoni così semplici allora potevano volare altissime in classifica, perché erano altri tempi. Tempi in cui la gente sapeva ancora commuoversi.
Ora capisco
Quello che hai cercato di dirmi
Come hai sofferto per la tua sanità mentale
Come hai provato a liberarli
Non ascoltavano, non sapevano come
Forse adesso ascolteranno
Notte stellata stellata
Fiori fiammeggianti che sfolgorano
Nuvole vorticose nella foschia viola
Riflessi negli occhi blu porcellana di Vincent
Colori che cambiano tonalità
E quando nessuna speranza è rimasta
In quella notte stellata, stellata
Ti sei tolto la vita, come spesso fanno gli amanti
Ma avrei potuto dirtelo, Vincent
Questo mondo non è mai stato destinato
A una persona meravigliosa come te
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