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Home » Lavoro » SALARI/ Perché non “aumentarli” implementando il welfare aziendale?

  • Lavoro
  • Politica

SALARI/ Perché non “aumentarli” implementando il welfare aziendale?

Giuliano Cazzola
Pubblicato 20 Settembre 2022
Lapresse

Lapresse

Aumentare indirettamente i salari incrementando il welfare aziendale sarebbe meno costoso per le casse dello Stato e avrebbe comunque benefici per i lavoratori

In un articolo su L’Economia, inserto del Corriere della Sera, di ieri Alberto Brambilla, Presidente della Fondazione Itinerari Previdenziali mette una sfilza di puntini sulle “i” del dibattito elettorale in materia di lavoro svelando “di che lacrime grondi e di che sangue” in termini di finanza pubblica. Per prima viene la proposta Letta riguardante la famosa mensilità in più (14esima) per i lavoratori dipendenti che – secondo Brambilla – costerebbe, ogni anno, 19 miliardi in più, in quanto per finanziarla di dovrebbero “abbuonare” 7,5 punti di contributi (per un valore di circa 29mila euro pro capite) lasciando inalterata ai fini della pensione l’aliquota di computo. Ma, come al solito, il più generoso è sempre Silvio Berlusconi (anche se nei programmi non indica gli importi che promette in pubblico e non chiarisce i termini delle operazioni che propone). Brambilla gli apre un conto “da paura”: 30 miliardi per portare a mille euro al mese le pensioni minime; 13 miliardi per ogni milione di mamme e nonne che venissero pensionate allo stesso modo; 8 miliardi per la decontribuzione totale per i giovani nei primi due anni di assunzione con un reddito fino a 25mila euro.


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Ammesso che – in concreto – venissero adottati alcuni correttivi (come si fece a suo tempo con l’erogazione di un milione di lire mensili che non andarono alle pensioni di importo inferiore, ma ai pensionati titolari di un reddito – solo da pensione – inferiore a tale livello) ci sarebbero da affrontare oneri proibitivi sul versante della spesa in parallelo con una riduzione delle entrate fiscali.


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È evidente l’insostenibilità di queste promesse, anche se in pratica si dovesse arrivare a un loro ridimensionamento. Ai costi esorbitanti derivanti dalle operazioni ricordate andrebbero aggiunto le misure riconducibili alla c.d. flessibilità del pensionamento presenti in diversi programmi (tra cui anche quello del Pd). In proposito spicca la proposta della Lega del pensionamento anticipato con 41 anni di contributi, ribadita con tanta insistenza da apparire la sola forma consentita di pensionamento. Non si capisce, infatti, se sussista o meno, in questa impostazione, il pensionamento di vecchiaia e a quale età anagrafica e con quanti contributi richiesti. Sarebbe bene chiarire questo punto, perché se il solo criterio fosse quello dei 41 anni di versamenti, davvero risulterebbe difficile, specie per le donne, andare in quiescenza.


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Brambilla poi puntualizza le ambiguità riguardanti la c.d. riduzione del cuneo fiscale e contributivo. Nel dibattito il cuneo (ovvero la differenza tra il costo del lavoro a carico dell’impresa e il salario in busta paga del lavoratore) viene presentato come se fosse un’anomalia, un’escrescenza da estirpare, mentre questo ammontare non è altro che la somma delle aliquote di finanziamento delle diverse prestazioni sociali a cui si aggiunge il prelievo fiscale a carico del lavoratore effettuato dal datore in qualità di sostituto di imposta.

Brambilla ha calcolato che per il 70% dei redditi degli italiani il coté fiscale del cuneo non esiste o non ha una adeguata consistenza; perciò la riduzione del cuneo ha assunto il profilo della “decontribuzione” ovvero della fiscalizzazione di quote crescenti della contribuzione sociale lungo quella linea di “nazionalizzazione della retribuzione” che anche noi abbiamo più volte messo in evidenza. In sostanza le prestazioni sociali continuano ad essere erogate con la copertura della fiscalità generale dei flussi contributivi ridimensionati (per l’Anf è addirittura una storia vecchia che risale alla riforma Dini del 1995); quanto alle pensioni – come già ricordato in precedenza – la riduzione dell’aliquota di finanziamento viene compensata da maggiori trasferimenti, ferma restando l’aliquota di computo che serve a determinare l’importo della prestazione.

Non si può non vedere che è in corso un processo di significativa trasformazione del finanziamento del sistema di welfare che rimane di tipo occupazionale/contributivo, ma adotta forme proprie dei modelli universalistici senza esserlo né divenirlo. A leggere i suoi scritti si comprende che Brambilla (giustamente) considera insidioso questo modo di procedere e avanza una proposta interessante: quella di consentire l’utilizzo dei bonus erogati nella sequela dei decreti aiuti anche ai fini dell’implemento del welfare aziendale e delle prestazioni erogate.

Grazie al regime fiscale previsto per queste tipologie di tutela sempre più diffuse nella contrattazione collettiva vi sarebbe un beneficio (magari indiretto) per i redditi dei lavoratori, mentre le minori entrate dall’Irpef (anziché maggiore retribuzione i lavoratori otterrebbero maggiori servizi) sarebbero compensati da un maggiore afflusso derivante dall’Iva.

Proposte sagge, infilate in una bottiglia affidata alle acque del mare con la speranza che, nella prossima legislatura, qualcuno le raccolga, a partire da quella Legge di bilancio 2023 a cui nessuno sta ancora pensando.

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