"Sic Transit" di Alberto Reggiori. Un Autista e un Passeggero occasionale si confrontano, senza sconti, con quanto sta al fondo delle cose
Mi sono sempre chiesto come possano tanti medici fare così tante cose diverse dal loro lavoro, facendole tutte bene. Conosco sanitari bravissimi, che passano la giornata fra la sala operatoria e lo studio privato, senza un attimo di tregua, e che tuttavia trovano il tempo, l’energia, e soprattutto la voglia di dedicarsi anche ad altro, con la medesima passione: dipingono, pubblicano libri, scrivono sui giornali, partono per missioni umanitarie, si impegnano in politica (questo lo fanno anche tanti avvocati ed economisti…). Sarà perché la loro professione non gli basta? No. Piuttosto è come se curarsi degli altri avesse loro insegnato a curare (a non tras-curare) ogni aspetto della vita. A prendere sul serio tutto, ad appassionarsi di tutto.
Gli esempi potrebbero essere molti, pubblici – da Gino Strada a Enzo Jannacci –, ma soprattutto privati. Uno stuolo di esempi privati. Da estendere al calendario cristiano, dove l’elenco dei medici santi va da san Luca e i santi Cosma e Damiano ai più “moderni” Giovanni Moscati, Riccardo Pampuri, Gianna Beretta Molla (se poi includiamo Ildegarda di Bingen copriamo anche lo spettro delle medicine naturali e alternative oggi tanto di moda).
Fra questi medici poliedrici c’è anche il varesino Alberto Reggiori, che conosco da anni senza mai essere riuscito a capire come, da impegnato chirurgo degli ospedali di Varese e dintorni, sia riuscito e riesca a: alzarsi nel mezzo della notte se lo chiamano in reparto per un intervento d’urgenza; scrivere libri; partire appena possibile per missioni umanitarie estreme in Sudan e in Uganda, in Siria e in Iraq; non sottrarsi mai a parlare in incontri pubblici; correre la maratona parecchio sotto le quattro ore dei tapascioni; salire su un palco e trasformarsi in comico da Zelig… Ah sì, anche aver esemplarmente cresciuto sette figli, avuti tutti per giunta dalla stessa moglie, e ricordarsi i nomi di tutti i nipotini. Una vita frenetica e impaziente? Niente affatto, almeno a vedere la levità che è capace di mantenere con i colleghi, con la moglie, con gli amici. Se c’è una persona al mondo che pare immune dallo stress che attanaglia tutti noi, questi è il dottor Alberto Reggiori.
Insomma, ce n’è abbastanza per assegnargli la medaglia d’oro del triplo salto carpiato con molti avvitamenti extra-sanitari, nonché per farne il mio eroe personale e farmi morire di invidia a ogni sua nuova iniziativa. Adesso, per esempio, dopo tre libri assolutamente autobiografici su “drammi dell’esistenza” da lui vissuti in Africa e in famiglia (Dottore, è finito il diesel; La ragazza che guardava il cielo; Fatti vivo), eccolo capace di sfornare la sua prima opera di finzione, Sic Transit (Ares, 2023).
Trattasi di un incalzante dialogo dall’impianto parecchio teatrale. Da una parte, un Autista che a prima vista appare un po’ rude e grezzo, poco curante delle buone maniere, come piovuto da un’altra era: gira con il cellulare scarico su un furgone del 1984, con i finestrini a manovella, tubi di scarico ecologicamente scorretti, un’autoradio con musicassette (!) degli Inti Illimani. Invece via via questo improbabile autista si svela essere sensibile, pacato, generoso, colto, curioso, amante della vita, sua e quella di chi incontra. Un uomo che non si è tirato indietro se si trattava di fare le cose più diverse (come Reggiori?): pizzaiolo, animatore nei villaggi turistici, raccoglitore di meloni, fattorino, ma che poi si rivela lettore di Esenin e Ungaretti, giornalista, scrittore, soprattutto appassionato insegnante di italiano e storia ai ragazzi delle scuole medie.
Suo contraltare drammatico è un Passeggero occasionale, uomo sostanzialmente solo, incavolato con la vita, che ostenta egoismo, cinismo, indifferenza ed è persino parecchio ignorante nonostante la sua laurea alla Bocconi. Un uomo figlio di un’epoca senza punti di riferimento, di una società dove tutto pare destinato a essere inghiottito in un gorgo di fallimenti, dal matrimonio al lavoro, sino a qualsiasi speranza nel futuro.
La storia prende avvio da un banale contrattempo, o almeno così lo intende il passeggero rimasto a terra per un guasto alla sua auto. Nella visione più alta dell’autista che generosamente lo raccatta, però, non esistono contrattempi: semmai imprevisti. Ovvero, a dirla con Montale, “occasioni” (e fu proprio Montale, Reggiori lo ha senz’altro presente, a ipotizzare che per quel viaggio che è poi la vita “un imprevisto è la sola speranza”).
“Palcoscenico” della vicenda (abbiamo detto dell’impianto teatrale di Sic Transit, e già si attende un regista disposto a metterlo in scena) è un furgone giallo, un vecchio Ford Transit giallo. Gialla, per restare al mondo delle quattro ruote, è la bandiera con cui ai piloti si segnala un pericolo in pista. Di più: era la bandiera con cui le navi segnalavano un’epidemia a bordo. E il racconto, sarà un caso, è ambientato nell’ottobre 2019, poco prima che il Covid mettesse in isolamento il mondo, con una pandemia che infatti in una delle ultime pagine viene esplicitamente “profetizzata” dall’autista.
Isolati in due universi non comunicanti appaiono anche i due protagonisti. Isolati nelle loro vicende personali, isolati nel mezzo di un ingorgo stradale, isolati nell’abitacolo del furgone dove, come in un confessionale, si è obbligati a rivelare se stessi, anche se ognuno sembra parlare una lingua diversa. Obbligati ad aprirsi, e a rompere dunque quell’isolamento.
Insomma, si capirà che la prima opera narrativa di Reggiori è una sorta di racconto morale che par quasi rimandare agli exempla medievali, quel genere letterario in cui, con qualche schematismo apologetico, si metteva in scena la vita di un protagonista che, attraverso il superamento di varie prove e un determinato comportamento, riusciva faticosamente a giungere alla salvezza. Lo testimonia anche il nome dell’autista, rivelato quasi alla fine: nome che qui non è il caso di spoilerare, ma che ben può essere intuito sin dalla iniziale citazione biblica di Giacobbe.
Un racconto morale, Sic Transit, dove si impara, fra le altre cose, che un disturbo psichiatrico non è l’ultima parola su un essere umano; che la preghiera ha senso più come domanda di essere che come richiesta di aiuto; che “la cosa che rovina il mondo è la convinzione di essere migliore degli altri”; che “la solitudine peggiore è stare accanto a chi ti ignora”; che le uniche parole divine che può pronunciare chi ama qualcuno sono “non ti lascerò mai” (pregasi evitare la tentazione di pensare che si tratti di frasi da baci Perugina, definizione su cui ironizza lo stesso Reggiori nelle sue pagine).
Qua e là si trovano pure l’apologia dell’amicizia fra marito e moglie (dichiarata anche nella dedica del libro), lo stupore per chi sa accettare il suo destino anche alla fine di un ormai inutile ciclo di chemioterapia, la lode del medico capace di immedesimarsi in chi ha di fronte e di parlare chiaro. “Se si capisce quello che ti viene detto, quello è un semplice dottore, se invece non capisci niente è certamente un professore” dice l’autista (alter ego di Reggiori?). Ed ecco una possibile spiegazione del perché il nostro medico/scrittore nella sua vita ha scelto di occuparsi di tante cose, scansando il rischio di diventare professore o primario.
Il dialogo è sempre fitto, pressante. Talvolta accade che mini-racconti siano qua e là incastonati anche nel tessuto degli scambi fra i due protagonisti, come quando l’autista rievoca una sua esperienza di volontario nel Sud Sudan o come quando, sul finire, la scena si trasferisce nell’idillio serale del Sacro Monte di Varese. Allora di colpo il tono si eleva, come se il cuore prevalesse sulla ragione, con l’autore che pare dare il meglio di sé quando si confronta con esperienze autobiografiche che lo hanno segnato, fino a commuoversi spiando il parallelo inginocchiarsi in preghiera di due vecchi: l’italiano che sul pavimento della cucina parla alla Madonna in dialetto irpino, il sudanese incurante del caldo rovente in una fetida cappellina nel deserto. A sorpresa, poi, come un libro nel libro, a un certo punto la storia si sdoppia e Reggiori apre una parentesi, con la prosa che prende un ritmo più largo e pacato e trasporta il lettore alla Palestina di duemila anni fa, a Ponzio Pilato. Un po’ come fece Bulgakov nei capitoli alterni de Il Maestro e Margherita. Ma il nome a cui conducono alcuni indizi, chissà se disseminati solo per una serie di coincidenze, non è quello dello scrittore ucraino/russo, bensì un altro: quello del grande Cormac McCarthy. Sic Transit infatti ha un impianto che ricorda il dialogo esistenziale fra i due protagonisti di Sunset Limited; ha come protagonista un Passeggero, mentre guarda caso esce in libreria contemporaneamente Il Passeggero, primo volume del dittico pubblicato a fine 2022 negli Usa dallo scrittore novantenne; infine, il titolo Sic Transit consiste in un binomio in latino che rimanda a un universo cristiano, proprio come il secondo volume del dittico di McCarthy, Stella Maris, che uscirà in Italia in settembre.
Tre indizi fanno una prova, almeno quanto al nume ispiratore? Certo, le attinenze con il più grande scrittore vivente farebbero tremare ginocchia e polsi a chiunque. E, di sicuro, Sic Transit non è un’opera alla Cormac McCarthy, non solo perché lo scrittore americano usa un po’ meno aggettivi e meno punti esclamativi. Non si potrebbe neppure pretenderlo, ma resta comunque ammirevole la ricerca di senso che due autori, pur così lontani, condividono. Che porta entrambi a confrontarsi senza sconti con la realtà, con quanto sta al fondo delle cose, al di là dell’apparenza. Consci, l’uno e l’altro, che la gloria del mondo è destinata a passare. E allora, serve trovare qualcosa che permanga. Che resista.
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