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Home » Cultura » Letture e Recensioni » LETTURE/ Da Plauto a Ovidio, la vera “metamorfosi” è una trasformazione interiore

  • Letture e Recensioni
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LETTURE/ Da Plauto a Ovidio, la vera “metamorfosi” è una trasformazione interiore

Stefano Arduini
Pubblicato 23 Ottobre 2023
ovidio_roma_cultura_latino_poesia_web

Ovidio (foto dal web)

"Vertere" è uno dei termini latini più interessanti per "tradurre": indica un cambiamento che è metamorfosi, l'intervento di una forza magica che trasforma la vita

Uno degli undici termini con cui il mondo latino ha articolato il concetto di tradurre è vertere, forma più antica e usata fra quelle che ci sono testimoniate. Il termine di solito implica una resa libera ma è anche abbastanza problematico perché può essere usato in modo contraddittorio, come accade con Plauto e Terenzio che lo usano per descrivere l’atto di adattare gli originali greci alla nuova commedia romana ma in modo opposto l’uno all’altro. Plauto usa vertere in due commedie, l’Asinaria e Trinummus. All’apertura della sua Asinaria, nel vv.10-12 Plauto commenta la sua fonte scrivendo: “In greco questa commedia si intitola Onagós, l’ha scritta Demofilo e Macco l’ha tradotta in latino (vortit barbare). Vorrebbe tradurla (volt) Asinaria se vi va bene”. In Terenzio vertere compare invece solo nel prologo di Eunuchus in cui usa il termine per attaccare Luscio Lanuvio con la sottolineatura che questi traduce (bene vertere) bene ma scrive male.


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Vertere indica il tradurre in gara con il modello, lo zelos greco, che vuol dire “emulazione”, “invidia”: invidia superata nel possesso raggiunto e nell’emulazione riuscita, all’interno di un contesto in buona parte bilingue. Si tratta di gareggiare con i greci e questo una traduzione ad verbum non lo avrebbe permesso.


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C’è però un altro aspetto che può aiutare a illuminare ulteriormente il senso di vertere e di quale fosse l’idea del tradurre nel mondo latino. Molto spesso, infatti, il cambiamento dovuto al vertere implica l’intervento di una forza magica, soprannaturale, capace di operare una trasformazione che sa di metamorfosi. Ad esempio, quando Mercurio, nell’Amphitruo di Plauto, descrive la facilità con cui Giove muta d’aspetto per assumere l’identità di Anfitrione, dice: “in Amphitruonis vertit sese imaginem”. In maniera simile il re Mida delle Metamorfosi dice: “Fai che tutto quello che tocco con il mio corpo si converta (vertatur) in fulvo oro”; così anche la vecchia strega Dipsas trasformata si aggira volando fra le tenebre (“nocturnas versam volitare per umbras”).


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La persona o la cosa soggetta al vertere subisce una trasformazione per cui perde la propria forma esterna per assumerne un’altra. Si può dunque pensare che colui che vertit in latino un testo composto in un’altra lingua ne opera una sorta di metamorfosi. Ne muta radicalmente la forma, ne fa qualcosa che risulta altra rispetto a ciò che era prima pur restando la stessa. Del resto i Romani trovavano un collegamento fra vertere e il dio che regna sulle trasformazioni, il dio Vertumno, l’incredibile trasformista, come lo ha definito Maurizio Bettini (Vertere: Un’antropologia della traduzione nella cultura antica, Torino, Einaudi 2012). Una divinità che può prendere qualunque aspetto continuamente. È ancora Ovidio nelle Metamorfosi (XIV, 623-697), che ci parla della sua trasformazione più esemplare nell’episodio di Pomona e Vertumno dove tutto è traduzione e trasformazione.

Si tratta di un episodio che ha un posto speciale nella narrazione di Ovidio. È infatti l’ultimo della serie di incontri fra uomini e dei e l’ultima storia d’amore, una storia tuttavia diversa da quelle precedenti. Vertumno, infatti, ha un modo diverso da quello di tutti gli altri dèi di corteggiare e lo mette in atto con Pomona, la bella giardiniera vergine che vieta a tutti gli uomini di entrare nel suo frutteto chiuso e protetto. Vertumno per conquistarla si trasforma in una vecchia e lodando la fanciulla riesce ad avvicinarla, catturata così la sua fiducia le rivolge un discorso che esalta il proprio valore e come dunque sarebbe giusto concedere il suo cuore a tale innamorato (XIV, 665-680).

Dopo aver perorato la propria causa con le sembianze della vecchia, Vertumno riacquista il proprio aspetto. Il dio si trasforma, ma a differenza di Giove o di Apollo parla da innamorato. E Pomona non fugge come Daphne o Eco, ma ascolta quanto le viene detto. Vertumno la convince usando il travestimento e Pomona, vinta dalle parole, rinuncia alla sua promessa di verginità abbandonando qualunque timore verso gli uomini. La metamorfosi porta dunque a una trasformazione interiore di Pomona messa in evidenza dall’altra trasformazione, quella dello schema narrativo che cambia la struttura tradizionale di corteggiamento-rifiuto-violenza. L’azione del vertere, o del convertere come per Cicerone, porta a un cambiamento attraverso il quale il passato non è negato ma provoca un rinnovamento che porta a nuova vita.

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