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Home » Cultura » Arte » ARTE/ Felice Carena e la sua “divina luce”, una religiosità indigesta al 900 post-cristiano

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ARTE/ Felice Carena e la sua “divina luce”, una religiosità indigesta al 900 post-cristiano

Elena Pontiggia
Pubblicato 1 Giugno 2024
Felice Carena, Scuola (1928, particolare)

Felice Carena, Scuola (1928, particolare)

Una mostra antologica di Felice Carena è aperta alle Galleria d'Italia di Milano. Perché è stato volutamente trascurato dalla critica d'arte?

Si è aperta il 17 maggio a Milano, alle Gallerie d’Italia, un’antologica di oltre cento opere di Felice Carena (Torino 1879-Venezia 1966). Sarà l’occasione (fino al 29 settembre 2024) per rivedere un artista di assoluto talento, ma anche per cogliere quei valori di spiritualità e di religiosità che attraversano tutta la sua arte. “L’arte è la guida dell’anima” amava dire lui stesso.


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Quei valori li esprime già in un ritratto della madre del 1902, andato purtroppo perduto. L’anziana donna ha un libro fra le mani, mentre sulla parete una corona del rosario è appoggiata alla cornice di un’Ultima Cena forse leonardesca. Tutto, nell’opera, rimanda a una vita raccolta, scandita e confortata dalla lettura e dalla preghiera.


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Nato a Torino nel 1879, Carena lascia la città nel 1906, dopo aver vinto una borsa di studio per frequentare l’Accademia di Roma. Nel 1924 è chiamato a insegnare all’Accademia di Firenze, allora una delle più prestigiose d’Italia. Poco tempo dopo ne diventa direttore. Nella città del Giglio rimane fino al 1945, quando si trasferisce a Venezia dove vivrà fino alla morte, che lo coglie a ottantasette anni.

“Ho amato la luce e i poveri” diceva ancora Carena. Lo si vede, per esempio, nella Scuola, 1928, un’opera larga oltre tre metri e alta quasi due, una delle più monumentali del Novecento. Il tema, ispirato vagamente all’Atelier di Courbet, è già una dichiarazione di poetica. Nello studio non entra solo la modella tizianesca, che l’artista osserva con tavolozza e pennelli in mano, e che gli allievi sullo sfondo hanno già copiato. Un giovane che non sembra uno studente, seduto a qualche distanza dal piano di posa, medita pensieroso. Nella stanza, poi, si scorgono anche figure dimessamente vestite che trasformano l’aula accademica in uno spazio aperto alla vita di tutti, secondo quell’ideale di pittura come espressione dell’esistenza, spesso umile, che l’artista coltivava. La Scuola, insomma, accoglie la povera gente insieme alle modelle ed è attenta non solo al mestiere, ma anche al mestiere di vivere.


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Carena non ha certo bisogno di essere riscoperto: la sua figura è ben nota agli appassionati. Tuttavia deve essere ancora valorizzato come merita perché, nella famiglia dei grandi artisti del Novecento, è stato il più dimenticato. La sua statura artistica non ha ancora ottenuto tutto il riconoscimento che le è dovuto e a questo peccato di omissione, uno dei più gravi della nostra critica d’arte, hanno concorso soprattutto due elementi. Il primo è un’errata identificazione dell’artista col fascismo: un’equivalenza tutta da rivedere nel caso di una figura come la sua, che nella vita si è occupata solo d’arte ed è sempre stata estranea alla attività politica. Il secondo, anche più pernicioso, è legato appunto alla sua spiritualità, poco compresa nel secolo della “eclissi del sacro”.

Tutta la pittura di Carena ha un accento etico, prima ancora che estetico. Le sue opere esprimono quei valori intrinsecamente religiosi che l’artista aveva appreso fin da ragazzo, in famiglia, e poi frequentando personalità filantropiche di eccezione come Giovanni Cena, che negli anni successivi si dedicherà generosamente a insegnare a leggere e scrivere ai contadini analfabeti dell’Agro Romano. Il suo cristianesimo non nasce da un’appartenenza abitudinaria, ma da una convinzione profonda e da una condivisione di ideali, a cominciare dall’amore per il prossimo, che esprime non solo nei temi sacri, ma spesso anche in quelli profani. I popolani che lottano in una Rivolta non ideologica; la famiglia dei suoi cavallari, bovari, bifolchi; i suoi Apostoli che hanno i volti dei pastori ciociari; le sue ninfe che nella Quiete agreste si manifestano ai contadinelli; le sue nature morte umili e indifese, che però rimandano sempre a qualcosa di più grande, testimoniano una pietas non di maniera. Una tale compassione, si intende, convive in Carena con la ricerca della bellezza, che lo porta a rappresentare il corpo luminoso della donna, anche se mai come nei suoi nudi avvertiamo la presenza dell’anima. E appunto la sua religiosità (intesa anche in senso etimologico, come un “re-ligare”, un legare figure e cose a una dimensione più alta) è  spesso risultata indigesta, nel laico e postcristiano Novecento.

La sua arte, comunque, rimane. “Prego Iddio che mi conceda ancora e sempre più la gioia e la grazia di vedere con sempre maggiore purezza questo bel mondo e questa divina luce”, scriveva Carena nel 1931. La sua preghiera è stata esaudita.

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