Anche dall'ospedale dove si trova ricoverato, papa Francesco ha voluto chiamare il parroco di Gaza come fa da mesi
È stata il suo primo pensiero, appena ripresosi dalla crisi che lo aveva colpito nella giornata di lunedì: telefonare, come quasi ogni giorno da qualche mese a questa parte, al parroco di Gaza. Per i tanti che stavano seguendo con apprensione il bollettino sanitario di papa Francesco si è trattato della notizia più rinfrancante, ancor più delle informazioni mediche: il Papa era “sul pezzo” come sempre.
La consuetudine della telefonata a padre Gabriel Romanelli, 54 anni, argentino, alla testa dell’unica parrocchia cattolica di Gaza è qualcosa che racconta tutto di papa Francesco. Qualche numero rende l’idea: nel compound parrocchiale vivono circa 180 famiglie, cioè 560 cristiani, tra cattolici e ortodossi, tra cui 140 tra bambini e ragazzi sotto i 18 anni; tra loro i 54 piccoli disabili assistiti dalle suore di Madre Teresa. Una piccolissima minoranza dei 2,3 milioni di abitanti totali della Striscia.
La guerra ha fatto morti anche qui, come le due donne uccise dai cecchini nel dicembre 2023 o come le 17 vittime dell’attentato alla chiesa ortodossa di San Porfirio. Nei lunghi mesi dei bombardamenti la chiesa era diventata rifugio per tante persone impaurite che dormivano ogni notte sul pavimento.
L’appuntamento dal 9 ottobre 2023, inizio dei bombardamenti di Gaza, è quasi quotidiano. La chiamata in genere è intorno alle 19, quando a Gaza sono le 20. In realtà non è una telefonata, ma è una videochiamata dal cellulare del suo segretario, perché a Francesco piace familiarizzare, vedere, farsi sentire presente. Si fa passare i bambini, chiede come stanno e cos’hanno mangiato. Lascia che lo mettano in vivavoce in modo che tutti possano sentire: il 12 gennaio, dopo l’annuncio del cessate il fuoco, la telefonata si è trasformata in una festa collettiva di piazza, come ha raccontato “L’Osservatore romano”.
Se padre Romanelli non è vicino al telefono risponde il suo vice padre Abuna Yusuf. «Ieri ho chiamato – lo faccio tutti i giorni – la parrocchia di Gaza, erano contenti. Lì dentro ci sono 600 persone, parrocchia e collegio. E mi hanno detto: “Oggi abbiamo mangiato lenticchie con pollo”, una cosa che in questi tempi non erano abituati a fare, soltanto qualche verdura, erano contenti», aveva raccontato al termine dell’Udienza generale dello scorso 22 gennaio.
C’è un altro dettaglio che rende cara la parrocchia di Gaza a papa Francesco. Lo ha spiegato padre Romanelli: «La nostra parrocchia è dedicata alla Santa famiglia perché qui, fuggendo in Egitto, Gesù, Giuseppe e Maria sono passati». Anche loro inermi, anche loro nella mira di interessi potenti.
Nelle telefonate non ci sono mai contenuti eclatanti. Non hanno un significato politico. Rappresentano un gesto di attenzione e di vicinanza umana: come la telefonata serale di un vecchio padre al figlio e ai nipoti, dove anche il vecchio padre lontano si sente in famiglia.
C’è però, una domanda: perché papa Francesco sente necessario e giusto rendere pubblica questa sua consuetudine? Non a caso anche nel comunicato della sera di lunedì un’altra volta la telefonata è stata rimarcata. È evidente che telefonando a Gaza in realtà sta parlando al mondo. Mette al centro della sua attenzione di Papa, cioè di capo della chiesa, una realtà marginale e inerme. Una realtà da nulla, che è però posizionata su una faglia dove i destini di interi popoli sono messi in gioco da interessi potenti. La telefonata del Papa in questo senso è anche un giudizio. Che ha la forma di un ostinato segno di umanità e di speranza.
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