L’ultimo lavoro di Valerio Capasa, “Pasolini Gaber. Il potere, la farsa, il cuore” è una scoperta vissuta, fuori traccia, di due “irregolari” del nostro 900
In molte persone alberga la pazza idea che quando giungeranno nel regno dei più, oltre a ritrovare i propri cari defunti, interrogheranno vis-à-vis protagonisti e figure affascinanti della storia per conversare con loro e penetrare in misteri insoluti. È in fondo l’ingenua versione della comunione dei viventi con i trapassati.
Ma invece, da vivi, da quaggiù, su questa terra e in questo tempo, farsi prendere sottobraccio e fare un pezzo di strada insieme a personaggi interessanti? Va letto in questa chiave il bel libro di Valerio Capasa, Pasolini Gaber. Il potere, la farsa, il cuore (Edizioni di Pagina, 2025): una passeggiata – stimolante è dire poco, meglio dire folgorante – in mezzo a due persone irregolari, due poeti-profeti del tempo recente, familiari ai meno giovani, distanti ai più giovani, su un sentiero impervio, scosceso e periglioso ma in compenso non astruso, non sconnesso dalla realtà, non interrotto e sbarrato a un destino.
Pier Paolo Pasolini e Giorgio Gaber, che non risulta si siano mai incontrati di persona, sono nomi impegnativi e rischiosi, sia per chi non li conosce e forse ancor più per chi ritiene di conoscerli; soprattutto PPP è spesso oggetto di giudizi sbrigativi sia di lode che di rifiuto, esistono sia un kit premontato filo-pasoliniano fatto di “lui avrebbe detto”, “lo diceva già Pasolini”, che una bulla di condanna sommaria in quanto “nostalgico-reazionario”.
In forme diverse, magari più attenuate, vale lo stesso per Gaber. Entrambi hanno registrato, con sofferto acume e poetica nitidezza, la catastrofe del Novecento, che non è solo quella eclatante delle due guerre mondiali con il loro immane carico di dolore, bensì quella verificatasi nella coscienza dei loro contemporanei, nei loro atteggiamenti e comportamenti e nel gusto sapido e bambino della vita. Una erosione più che una esplosione. O forse un gaio stordimento.
Nulla di più lontano dal vieto “si stava meglio quando si stava peggio”, PPP e GG non sono laudatores temporis acti, non praticano il sentimentale (e comunque lecito) rimpianto per i bei tempi andati; no, entrambi da garitte diverse sono sentinelle perscrutanti i contorni del nuovo tempo che avanza, sono fabbri che forgiano per tutti, nelle loro officine creative, l’arma prima e fondamentale per difendersi dall’inclemenza del presente, gli occhiali della consapevolezza.
Una volta inforcati si capisce perché c’è minor distanza tra il Seicento e l’Ottocento manzoniani che tra l’oggi e lo ieri, tra il presente e il passato secondo la traccia divisoria pasoliniana e gaberiana. La straordinaria sintonia tra i due si coglie ad esempio nella comune espressione “polli di allevamento” utilizzata per gli individui contemporanei, nella P maiuscola dell’uno designante il nuovo potere e nel brano L’ingranaggio dell’altro, nella sferzante critica del poeta all’obnubilante sviluppo della società italiana e nell’amara ironia del brano Com’è bella la città del cantautore lombardo e in tante altre sorprendenti consonanze scovate e proposte da Capasa.
Ma non ci sono solo i penetranti giudizi “sociologici” dei due, nel libro vengono alla luce frammenti dal profondo e tutto è in connessione. “C’è qualcosa di vero tra la culla e il cimitero”? si chiede cantando Gaber, e altrove “La massa opacizza la luce, la massa rifiuta la fede, rifiuta anche il male, rifiuta l’attesa, il mistero, il sociale”.
Nell’“oscuro mattino” del tempo omologato pasoliniano – così terribilmente vicino al “negro latte del mattino” di Paul Celan – traluce però anche qualcosa che contrasta il buio d’una appiattita inconsistenza. Certo non saranno le ingannevoli ed effimere lucentezze consumiste a trafiggere le tenebre; non lo shopping, la palestra o il burraco o il “far finta di essere sani”, avverte Gaber.
Qualcosa d’imprevisto s’affaccia, o meglio, fa capolino, qualcosa che sta prima (e dopo) di tutto e che il tutto sorregge, qualcosa da entrambi intuìto, chissà, forse sperato, qualcosa di sottostante e soprastante ogni lucida amarezza, ogni contuso sguardo, ogni dolente verso. Qualcosa di pudicamente inespresso, salvo eccezioni, laddove non si può non avvertire il rimpianto di non essere friulani e non poter mandare a memoria queste poetiche parole con la loro connaturata musicalità:
“Il Signòur ni à vistùt di ligrìa e pietàt na corona di amòur a ni à mitùt tal ciaf. Il Signòur l’à vulùt sbassà duciu i mons implenà li validis fà dut vualìf il mond, parsè che il so pòpul cuntènt al ciamini par la quieta ciera dal so quiet distìn. Il Signòur lu saveva che tal nustri còur davòur dal nustri scur a era il So luzòur”.
Purtroppo dobbiamo tradurre: “Il Signore ci ha vestiti di allegria e pietà, una corona di amore ha messo sul nostro capo. Il Signore ha voluto abbassare rupi e monti, colmare le vallate, fare uguale tutto il mondo, perché il suo popolo contento cammini per la quieta terra del suo quieto destino. Il Signore lo sapeva che nel nostro cuore, dietro il nostro scuro, c’era il Suo splendore”. Versi pasoliniani che parlano del 1945, con l’Italia sventrata dal conflitto bellico epperò con giovani italiani ancora incorrotti davanti alla vita, davanti al futuro, davanti alla speranza.
Letta l’ultima pagina del libro di Capasa ecco il retrogusto, il pensiero che resta: come sarebbe bello passeggiare e conversare più a lungo con Giorgio e Pier Paolo, ormai diventati amici del cuore.
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