Il film di Barry Levinson "The Alto Knights", nonostante l'ottimo Robert De Niro, non regge il paragone coi classici del genere
1957. New York. Frank Costello è il grande padrino del sistema mafioso che regola il racket della droga, della prostituzione, del gioco d’azzardo, dell’illegalità tutta. Si è fatto le scarpe trent’anni prima, insieme all’amico Vito Genovese, “primo ministro della malavita”, con cui ha condiviso la nascita dell’impero malavitoso. Costello sopravvive a un agguato che lo vuole morto, deciso dall’amico di un tempo, convinto di meritarsi il comando della baracca. Chi la vincerà?
Barry Levinson, regista e sceneggiatore statunitense, è uno di quei nomi dal curriculum altisonante. Negli anni Settanta ha diretto Il migliore. Negli Ottanta Rain man. Nei Novanta Sleepers. Con Donnie Brasco si è avvicinato al gangster-movie, come produttore e, all’alba dei suoi ottantatré anni, si è finalmente concesso la regia di una storia di boss e di padrini.
The Alto Knights ci porta nelle strade di New York, dove la violenza e il malaffare regnano sovrani. A dirigere il traffico, nei Cinquanta, ci sono Frank Costello e Vito Genovese, due nomi veri per una truce storia ispirata alla realtà. A rendere tutto perfettamente iconico il volto bugiardo di Robert De Niro, padrone del genere, sdoppiato virtuosamente nei due protagonisti della storia.
De Niro è l’uno e l’altro. È la personalità macchinosa e conciliante di Costello e lo spietato imprevedibile istinto di Genovese. È i due amici d’infanzia, compagni di merende, cavalieri del crimine. È protagonista e antagonista, replica credibile e incredibile dello stereotipo malavitoso da lui stesso forgiato.
I due volti del crimine hanno un unico volto. Quello del maestro che ogni tanto si concede di tornare all’ovile del cinema d’autore, dopo diverse deviazioni nei pianeti del pop. Un maestro che restituisce un po’ di senso a questa storia di mafia italoamericana, popolata di cognomi italioti.
Per chi conosce Scorsese, Coppola o Leone, il paragone è impietoso. The Alto Knights è solo l’imitazione ben fatta del genere, senza l’aspirazione – né la possibilità – di entrare nell’Olimpo degli Dei. Però il film, tutto sommato, c’è.
Ci sono le strade puzzolenti di crimine, ci sono le minacce che diventano violenza, ci sono le comparse ignobili di servilismo che salvano la pelle al soldo dei boss, ci sono le ricchezze accumulate dai morti, ci sono le donne serve del denaro e della buona sorte, ci sono le auto, gli agguati, le calunnie, i traditori, i sospetti, le guerre di quartiere, i poliziotti corrotti.
C’è tutta la mitologia del genere che, dopo il western, parla una sola lingua. Quella d’America, coi suoi loschi traffici e la violenza di strada, alimentata negli anni Venti dal proibizionismo, cresciuta di mazzetta in mazzetta, fino a segnare la storia del Paese, e perfino del cinema.
Scorsese, lo sappiamo, è stato più disturbante, violento, viscerale. Coppola più iconico. Leone più spettacolare. Levinson ci prova, scovando il prezioso momento in cui, in America, saltano le regole. Il momento in cui qualcuno ha perso il rispetto per il capo. Il momento in cui il mondo è cambiato e la mafia è tornata a essere semplicemente il Far West.
Il film scorre, con poca violenza, tante conversazioni e innumerevoli scorci visivi che parlano da sé, appoggiati alla virtuosa fotografia del premio Oscar Dante Spinotti. Le immagini ci raccontano che il male trasforma gli uomini in panzoni, volgari, viscidi papponi. Che il potere corrompe, intristisce, imbruttisce (e nemmeno te ne rendi conto). Che la storia ritorna. Sempre. Ed è sotto gli occhi di tutti, palese al mondo che non è l’America. Palese a tutti, tranne che a lei stessa.
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