Per la Cina sono scattati i dazi Usa al 104%. L'Amministrazione Trump di fatto vuole un embargo rispetto ai prodotti di Pechino
Dopo la chiusura positiva delle borse europee, ieri quelle americane hanno vissuto una delle giornate più volatili della storia. Per la prima volta dal 1978 il principale indice azionario americano è passato da una performance positiva di oltre il 4% a una chiusura in calo di oltre l’1%.
Per alcune ore si era scommesso che si potesse aprire una fase negoziale verso una soluzione ordinata alla guerra commerciale. Invece in serata è arrivata la notizia che gli Stati Uniti alzeranno i dazi contro la Cina al 104%. Il primo 20% è stato introdotto qualche mese fa per il caso “Fentanyl”; un altro 34% è arrivato settimana scorsa e l’ultimo 50% è arrivato ieri come risposta ai contro dazi cinesi.
Questi numeri non dipingono uno scenario di “guerra commerciale”, ma piuttosto una sorta di embargo contro i prodotti cinesi perché il calo della valuta di Pechino visto finora è molto lontano da poter pareggiare i dazi.
Più passano i giorni, più diventa chiaro quale sia la questione di fondo. Gli Stati Uniti si dichiarano disposti a trattare con tutti tranne che con la Cina; diventa inevitabile chiedersi se il problema non sia il deficit commerciale americano con il resto del mondo in quanto tale, ma il ruolo occupato dalla Cina nei commerci globali e soprattutto la posizione di leadership tecnologica raggiunta in alcuni settori incluso, in certi casi, quello militare.
Certo, gli Stati Uniti vogliono rimpatriare alcune produzioni strategiche nei settori dei microchip, piuttosto che dei medicinali o dell’acciaio in un’ottica di sicurezza nazionale, ma su molte alte produzioni, soprattutto nei segmenti a minor valore aggiunto, è difficile pensare di poter fare a meno di Paesi a basso costo.
All’interno di questa escalation sui dazi la Cina sembra perdente perché le esportazioni americane verso il paese asiatico sono una frazione di quelle che fanno il percorso inverso. Per quanto la Cina possa a sua volta aumentare i dazi sulle importazioni americane sarà sempre Washington, con il suo deficit commerciale, nella condizione di fare più male.
Questa è l’unica conclusione possibile nello schema dei dazi, ma c’è un’altra prospettiva. In una situazione di conflitto irrimediabile nessuno obbliga Pechino a vendere le proprie merci all’America. Da una parte c’è un Paese, la Cina, che vive di esportazioni e che perdendo l’accesso al più grande mercato al mondo condanna la propria industria e i propri lavoratori a subirne le conseguenze. Dall’altro, c’è un Paese che non ha più l’industria e che rischia uno shock sull’offerta che richiederebbe anni di investimenti per essere neutralizzato. In mezzo ci sono gli altri che possono ritagliarsi spazi di flessibilità, all’interno di questa disputa, a seconda della propria forza economica e geopolitica.
Ieri il Premier spagnolo Sanchez, nei prossimi giorni in visita in Cina, ha dichiarato che è tempo per l’Europa di ripensare le proprie relazioni economiche con il Paese asiatico; si intendeva un ripensamento in ottica di collaborazione e non di scontro. Sono le dichiarazioni del presidente del Consiglio di un Paese che l’anno scorso ha avuto per settimane prezzi dell’elettricità a zero per un mix unico in Europa di rinnovabili, nucleare e rigassificatori. La Spagna, dall’altra parte rispetto al confine ucraino, è molto più sovrana di altri Paesi europei. Dentro e fuori dall’Europa, pensiamo alla Turchia, ci sono Paesi in grado di ritagliarsi uno spazio di flessibilità superiore agli altri.
Senza una prospettiva di accordo tra Cina e Stati Uniti la volatilità sui mercati non può finire. Più lo scontro si acuisce, più diventano attuali sviluppi estremi. L’invasione di Taiwan che rischierebbe di rendere la Cina un “paria” minacciando i suoi commerci probabilmente fa meno paura di prima a Pechino vista la china che hanno preso le negoziazioni.
— — — —
Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.
