Nel tempo di Pasqua, il film "Il mio giardino persiano" ci mostra come nell'essere umano sia inestirpabile il desiderio di vita e di felicità
A Teheran, ma sarebbe lo stesso a Roma o a New York, la condizione di una vedova matura, con figli e nipoti lontani e gli acciacchi degli anni che si fanno sentire, è spesso segnata da una desolante solitudine e ripetitività. Ma Mahin, la protagonista del film iraniano Il mio giardino persiano è in fondo al cuore positiva e speranzosa, pur in un Paese dove le donne sole e non più giovani sono doppiamente emarginate a causa delle severe leggi islamiche.
È decisa a ritrovare entusiasmo, tenerezza e amicizia intima, seguendo il consiglio delle amiche, che la spingono ad aprirsi all’amore. Sfidando gli sguardi indiscreti dei vicini impiccioni e i divieti che costellano la vita delle persone in Iran, da quando è diventato una rigida teocrazia, la signora, educata e gentilissima, si reca in un ristorante per pensionati, dove viene guardata con indifferenza.
Qui scorge però il simpatico e mite tassista Faramarz, lo avvicina chiedendogli un passaggio per tornare a casa, e osa invitarlo in casa sua. Ricorda infatti che, in passato, anche per lei c’è stato un tempo felice e desidera rivivere piccoli momenti di gioia. Perché, come ha detto a una ragazza che ha salvato dalle grinfie della polizia morale, osando redarguire le guardie con decisione, “più tu accetti il loro potere, più loro ti schiacceranno”.
Inizia così un’imprevedibile, tenera e struggente serata nel suo incantevole giardino, che dà appunto il titolo al film Il mio giardino persiano. Diretto dalla coppia, anche nella vita, formata da Maryam Moghaddam e Behtash Sanaeeha, è stato presentato in concorso alla Berlinale 2024 e premiato. I due autori non hanno potuto tuttavia essere presenti, perché è stato loro negato il passaporto: una chiara ritorsione del Governo iraniano a causa del loro cinema poco allineato.
Ma che cos’ha di così rivoluzionario questo film per mettere in allarme il regime teocratico di Teheran? A parte l’unico riferimento “politico” alla giovane che non indossa correttamente il prescritto hijab, perché le spunta una ciocca di capelli, e per di più osa incontrarsi clandestinamente con l’innamorato, forse ciò che spaventa il potere è proprio lo sguardo dei registi sul desiderio di felicità di ogni essere umano. Anche se si esprime con semplicità nella capacità di godere delle cose minime, nello sguardo affettuoso e pieno di rispetto di un uomo e di una donna avanti negli anni, ma ancora vivi, che si concedono momenti di serenità e persino di allegria.
Mangiano i gustosissimi manicaretti di Mahin, innaffiandoli generosamente con una preziosa bottiglia di vino (vietatissimo in realtà!), nascosta per le grandi occasioni, e lanciandosi nella gioia delle danze tradizionali (un tempo tranquillamente consentite). Ballano felici come due ragazzini, certi che la vita è bella quando la si condivide con generosa naturalezza.
Faramarz, che ha fatto carriera militare e ha lasciato l’esercito, ha prontamente riparato le luci del giardino rotte da tempo e ora, quasi incredulo, gode dell’armonia con l’amica, che cresce lentamente, di confidenza in confidenza, mentre assaporano le piccole tenerezze dell’esistenza come un regalo sorprendente e tanto più gradito. Le pesche, un dolce alla crema di vaniglia al profumo d’arancio, o la menta raccolta nel giardino da Mahin, soltanto perché è apprezzata dall’amico insperato.
La pellicola ci offre un delicato spaccato di vita di due anime sole, ma che in realtà per loro diventa quasi travolgente, rispetto alle giornate uguali e senza slancio che stavano attraversando da troppo tempo. E ci stupiscono il garbo, la grazia e la pacata leggerezza, non priva di sottile ironia, con cui i registi seguono i due protagonisti nell’avventura di una serata dal valore universale. Sappiamo nel nostro supponente Occidente avere occhi così sensibili e rispettosi sulle ferite di chi è abbandonato e cerca amore?
È una pellicola che può commuovere a tutte le età, perché vede due anziani che, in una notte magica, si sorprendono a vivere con stupore un’amicizia inaspettata e sono capaci di divertirsi e regalare tenerezza l’uno all’altra, ritrovando una bellezza nella vita quotidiana che sembrava negata dall’età e dall’oppressione del regime. Come a ricordarci che nulla può cancellare totalmente la possibilità di ritrovare un senso e persino la felicità nella propria esistenza.
Certo, il finale de Il mio giardino persiano, che non vogliamo svelare, può suonare beffardo per lo spettatore disabituato a guardare alla profondità del mistero della vita. Ma, pur inatteso, è comunque un tentativo di andare oltre i divieti e le ristrettezze imposte dal potere tirannico che schiaccia la società iraniana e mostra un desiderio di non arrendersi alle difficoltà, per assicurare all’altro il rispetto e la dignità che merita.
Ai cristiani, è proprio la certezza della Resurrezione di Pasqua a regalare uno sguardo davvero disponibile a superare ogni contraddizione nell’abbraccio del Padre, che dà significato a ogni momento della nostra esistenza. Sguardo che forse anche il mondo iraniano potrebbe ritrovare pienamente, liberandosi dalla rigidità oppressiva delle sue istituzioni teocratiche. Per poter gustare quella libertà e quell’amore di cui la gente di Teheran, come ogni popolo, ha un grande desiderio.
— — — —
Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.
