La scorsa settimana è stata presentata la Strategia italiana per le tecnologie quantistiche. Appare utile una riflessione in merito
C’è una tentazione ricorrente che accompagna ogni grande rivoluzione tecnologica: la pretesa di potersi proiettare all’avanguardia con un tratto di penna. Una strategia, un documento, un acronimo evocativo, ed eccoci lì, apparentemente sul crinale del futuro.
Ma il futuro, cha ha la natura della montagna, non si scala a parole. E se il documento appena pubblicato sulla Strategia italiana per le tecnologie quantistiche ha il pregio di voler delineare una visione sistemica per il Paese, ha anche il limite – piuttosto italiano – di essere più promessa che progetto, più rappresentazione che realtà.
In prima battuta posso dire che sarebbe stato auspicabile, quantomeno, che un documento strategico rivolto a orientare l’intero sistema Paese fosse stato scritto anche per chi nel Paese ci vive. Comprensibile, anzitutto. Perché, se le tecnologie quantistiche sono davvero destinate a cambiare il mondo, non so se in meglio o in peggio, e c’è del vero in questo, è giusto che il cittadino medio possa partecipare almeno con una vaga idea di cosa stia accadendo. Altrimenti rimane spettatore passivo di una narrazione che lo sovrasta, e che in qualche caso lo illude.
Quindi, una spiegazione in parole semplici di cosa sia la computazione quantistica sarebbe stato un atto dovuto, ma purtroppo mancato.
Passando oltre dovremmo avere tutti compreso che nel dominio del digitale, dove il tempo corre con un’accelerazione che nessun piano a lungo termine riuscirà mai a contenere, le strategie durano meno di una collezione di moda. Le strategie hanno senso solo se sono sostenute da due cose difficili da trovare: competenze e risorse. Le prime non si improvvisano e le seconde non si trovano nei cassetti delle buone intenzioni.
L’Italia, in questo, sconta un cronico ritardo: centri di ricerca frammentati, start-up timide, e un’industria che fatica a investire dove il ritorno non è immediato. Il rischio è di costruire una visione senza il corpo, uno spettro bellissimo, ma in quanto tale privo di sostanza.
Terzo tema interessante. È affascinante osservare come ogni hype tecnologico produca, per risonanza, un hype politico. I due si alimentano a vicenda, fino a creare una zona indistinta dove il possibile viene confuso con l’attuale, l’auspicabile con il reale. Non è solo una questione semantica: è un cortocircuito della coscienza collettiva.
Quando la retorica dell’innovazione si fa spettacolo mediatico e poi promessa istituzionale, la percezione pubblica smette di distinguere tra ciò che è e ciò che potrebbe essere. E nel momento in cui si perde il contatto con il reale, ogni decisione rischia di essere sbagliata, anche se presa con le migliori intenzioni.
Detto tutto ciò, abbiamo tre sfide davanti a noi, due prove di maturità. La prima è arrivare in fondo a questa corsa quantistica senza essere travolti da un nuovo entusiasmo cieco e nei tempi corretti, che non sono domani mattina, evitando di trattare la computazione quantistica come la collezione autunno inverno 2025.
La seconda. Non è essere i primi a correre, ma i primi a capire dove stiamo andando. E con quali mezzi. La terza, senza dubbio più difficile, ma essenziale: evitare di trasformare la computazione quantistica nell’ultima pallottola della pistola della tecnologia con cui, da tempo, stiamo giocando alla roulette russa.
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