Relazione del Garante della privacy a Montecitorio: i ragazzi oggi finiscono per creare una specie di legame affettivo con l’intelligenza artificiale
Imitatori quasi perfetti del linguaggio umano, i modelli di intelligenza artificiale oggi appaiono interlocutori apprezzati e credibili, persino in grado di creare legami significativi sul piano emotivo e affettivo. Non sfugge però l’insidia di uno strumento che, specialmente nei più giovani, rischia di provocare aspettative promettenti quanto ingannevoli, destinate a frustrazioni a volte rovinose.
La tendenza all’iperconnessione che riguarda i minori, specialmente i “nativi digitali”, più esposti al rischio di un impoverimento dell’esperienza reale trascinata quasi per osmosi in uno spazio virtuale predominante, è stata affrontata nel discorso tenuto a Montecitorio dal Garante della privacy Pasquale Stanzione in occasione della relazione annuale 2024 lo scorso 15 luglio.
Un vero e proprio allarme è stato lanciato riguardo al fenomeno sempre più accentuato che riguarda il legame particolare che l’adolescente crea, non solamente navigando nei social, ma inserendosi in programmi di AI programmati per ottenere un’interazione, verbale o scritta, in grado di rispondere a domande anche creando contenuti originali. I chatbot, consentendo la simulazione di una conversazione umana con gli utenti, stanno assumendo un ruolo centrale nella vita degli adolescenti che affidano confidenze e interrogativi a un meccanismo virtuale che alla loro percezione si rivela appagante e esaustivo, come una figura di riferimento insostituibile.
Fra i rilievi evidenziati dal Garante, una recente ricerca dimostra che, a fronte di mezzo miliardo di persone che hanno scaricato un’app di “amicizia virtuale”, almeno un ragazzo su 6, tra gli 11 e i 25 anni, ha utilizzato i chatbot di AI per chiedere consigli e valutazioni, come fossero rivolti a uno psicologo, riscontrandone poi dipendenza in un caso su tre.
Addirittura alcuni sviluppano una sorta di legame affettivo, empatico, con questi chatbot anche in ragione del loro tono spesso compiacente, assolutorio, consolatorio e del loro configurarsi come un approdo sicuro in cui rifugiarsi, al riparo dal giudizio altrui.
Sono queste le considerazioni espresse su un aspetto particolare emerso in occasione della presentazione del report annuale sulla protezione dei dati personali, che mette allo scoperto una situazione di grave alienazione per giovani che, per risolvere alcuni interrogativi esigenti, sembrano scegliere un contesto “artificiale”, privo di una reale relazione umana che risulterebbe certamente meno addomesticata, probabilmente anche carica della fatica di possibili divergenze di pensiero, di visioni e di scelte attraverso le quali esercitare il gusto e la fatica della propria libertà.
Evitare discussioni spigolose, eventuali errori da riconoscere, come comporterebbe una reale relazione interpersonale, non sembra però garantire esiti positivi e rassicuranti. Affiorano piuttosto solitudini abissali nel vissuto di giovani sempre più isolati dal mondo reale, disorientati e fragili nel misconoscimento di ogni potenzialità in sé stessi e nel mondo circostante. Urgenze brucianti, consegnate a un soggetto illusorio e inconsistente, sono scivolate – in qualche caso estremo – in una voragine di insensatezza e disperazione.
Fra questi, sono stati ricordati due episodi: uno in riferimento alle domande sulle relazioni sentimentali e sulla tossicità dell’amore rivolte a ChatGPT da una giovane ragazza poco prima della sua tragica scomparsa; l’altro accaduto in Florida, per il quale è in corso un procedimento giudiziario per valutare la responsabilità di un chatbot nel suicidio di un quattordicenne, che aveva instaurato con l’AI un rapporto così intenso da considerarlo equivalente a quello con una persona reale.
Ed è questo l’equivoco altamente ingannevole e fuorviante che va urgentemente stigmatizzato: considerare un software digitale come fosse una persona. Anche plasticamente – come si usa dire – basta trovarsi su un metrò, in una stazione o in aeroporto, in un bar o per strada, per registrare per lo più una sensazione di solitudine percepita in visi incollati su uno schermo, iperconnessi, eppure calati in un isolamento impermeabile a qualsiasi contatto reale. La dimensione dell’incontro, della relazione, dello scambio di visioni, non sono più qualcosa che si recepisce nell’esperienza, tolta qualche fugace chiacchiera convenzionale, del tutto casuale.
Solo per dire che il clima in cui siamo immersi non sembra facilitare la consapevolezza di un soggetto umano che non è solo un individuo a sé stante, radicato un clima e in un pensiero che gli suggerisce prioritariamente il valore della sua autonomia, del suo esistere dipendente esclusivamente da quello che decide di essere e di fare.
I giovani che sono convinti di aprire un dialogo promettente con un chatbot sono permeati di una mentalità che non li aiuta a identificare l’esistenza dell’altro, a coglierne la ricchezza, avvertendo piuttosto la loro distanza, la loro differenza spigolosa, forse il loro disinteresse fino all’estraneità alla loro vita. Questa istintiva persuasione che – sia chiaro – potrebbe non avere alcun fondamento reale e non dipendere da oggettive mancanze da parte di altri, li induce a cadere in quello che viene definito un loop dell’empatia, a ricercare cioè un’approvazione di sé, una facile consolazione al proprio disagio.
L’emergenza descritta non è certo attinente all’intelligenza artificiale, di per sé tutt’altro che priva di utilità ed efficacia in tanti settori, ma riguarda l’inaridimento dell’umano in una cultura che ha tagliato i ponti con l’essenza stessa della persona, eludendo la domanda che la abita e la ricerca di verità che può realmente sostenere un’avventura umana e culturale delineando anche percorsi educativi condivisi.
Lungo la riflessione sul dramma di un soggetto che ha smarrito l’orientamento e fatica a riconoscere la differenza fra il mondo reale e quello virtuale, affiorano alla mente le considerazioni del filosofo polacco Stanislaw Grygiel, che nelle prime righe del libro L’uomo visto dalla Vistola nota: “Se uno non si trova mai, neppure per un momento, nel clima di un incontro, abbandona questa terra nella convinzione di aver vissuto un’esistenza senza senso né valore. Se ne va vuoto, perché non è stato riempito da nessuno. Contemporaneamente è come se si dissolvesse nel nulla, perché, egli stesso, non riempiendo nessuno non trova davanti a sé una terra su cui fermarsi e poter essere qualcuno“.
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