La visita che il cardinale Pizzaballa ha reso alla chiesa bombardata di Gaza e ai suoi parrocchiani è segno tangibile del Mistero e dell’amore di Cristo
Nei giorni scorsi, a seguito dell’attacco alla comunità cristiana di Gaza, il card. Pierbattista Pizzaballa si è recato di persona, insieme al patriarca ortodosso Teofilo III, per verificare la situazione e portare gli aiuti necessari. Nelle foto della visita che sono state diffuse, però, emerge la vera urgenza di quel viaggio: l’incontro degli sguardi.
Durante il conclave alcuni fecero notare lo sguardo del cardinale rapito dai soffitti della Sistina. Anche a Gaza diverse immagini lo mostrano con il volto rivolto verso l’alto, questa volta però per rendersi conto dei danni provocati dalle bombe. E, subito dopo, quello stesso volto cercato e catturato dagli occhi dei feriti che, in un attimo, si sono ritrovati in un abbraccio più grande del loro dolore.
In particolare c’è un’immagine che parla da sé: il card. Pizzaballa è chinato sul letto di un uomo che, senza pensarci troppo, gli afferra la croce pettorale per baciarla. È una scena che ne ricorda un’altra, accaduta molti anni prima nella gelida guerra di Russia, raccontata dallo stesso protagonista in uno dei testi più significativi che siano mai stati scritti.
“Passa ultimo e frettoloso un giovane ufficiale. Riconosce il cappellano. ‘Ciao, gli dice sottovoce, hai il Signore?’. ‘Sì’. ‘Dammelo da baciare’. Un balenio metallico della piccola teca tratta di sotto la divisa; un bacio intenso e poi via animosamente. Verso la battaglia. Ricomincia il colloquio e il cammino ‘a due’. Il cappellano parla al suo grande Compagno. Parole sommesse salgono disancorate dal fondo indistinto del cuore e qualche volta sfuggono inavvertite alle labbra. Sono le preghiere e i voti di tutte le mamme per i figli in armi, sono benedizioni e domande per ciascuno di quei generosi e umili combattenti incolonnati verso la linea del fuoco. E quando la domanda si fa più pressante, la gioia più intensa, il dolore più fondo, la mano corre istintivamente alla piccola teca che racchiude il Cristo. Come per un gesto di possesso e una riaffermazione di diritto, come per un bisogno di conferma e una rinnovazione di una ricchezza così augusta e troppo felice. Così vai e non sai bene se sia Egli che ti porta o tu che porti Lui” (don Carlo Gnocchi, Cristo con gli alpini, Àncora, p. 97).
In queste due immagini è contenuto tutto il cuore della compassione di Cristo alla nostra vita, che ha deciso si usare il sacerdozio come strada per comunicarsi.
Si spendono spesso tante parole, a proposito e a sproposito, per descrivere la vita del prete partendo dal compito e dalla funzione che ha o che dovrebbe avere nella comunità. Sempre sotto verifica, da alcuni denigrato, da altri lusingato, talvolta trattato come una pedina proprio da chi gli dovrebbe essere padre, ha in sé un mistero che non accetta in alcun modo di essere ridotto al ruolo o al compito. Nel Vangelo, infatti, come nelle due scene appena descritte, è evidente che il sacerdozio resterà sempre incomprensibile senza Cristo.
C’è un legame personale, sacramentale, definitivo tra l’umanità del prete e quella di Gesù e che viene prima della comunità. Giriamola come vogliamo, ma o ci arrendiamo alla collaudata definizione di “alter Christus, ipse Christus”, o finiremo con il rinunciare all’apostolicità della Chiesa.
San Paolo VI, a proposito dei sacerdoti, affermò che “Cristo ha stampato in ciascuno di loro il suo volto umano e divino, conferendo ad essi una sua ineffabile somiglianza”.
Il gesto dell’uomo ferito, che afferra la croce del cardinale per baciarla, ha in sé un grido che riafferma senza bisogno di parole tutta l’urgenza di uomini che vivano con la consapevolezza di essere quello che sono. Immersi nei loro peccati, come tutti, pieni di difetti e fragilità, intemperanze e fatiche, sono e resteranno la compagnia oggettiva all’uomo di sempre.
Prima di ogni slogan o frase fatta, uomini “riconciliati, uniti e trasformati dall’amore che sgorga copioso dal Cuore di Cristo, [che camminano] insieme sulle sue orme, umili e decisi, fermi nella fede e aperti a tutti nella carità, [portando] nel mondo la pace del Risorto, con quella libertà che viene dal saperci amati, scelti e inviati dal Padre” (Leone XIV, dall’Omelia per le ordinazioni sacerdotali, 27 giugno 2025).
Insomma, con il volto capace di contemplare bellezze e ferite, presenza dello sguardo di un Altro.
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