L'impugnazione del processo a Salvini da parte della procura di Palermo segna la volontà da parte di certi pm di opporre la riforma della giustizia
In mille giorni di Giorgia Meloni a Palazzo Chigi mai la tensione fra governo e magistratura aveva raggiunto vette così alte. Da una parte l’impugnazione della sentenza di assoluzione di Matteo Salvini a Palermo per il caso Open Arms, dall’altra l’inchiesta di Milano, la maggioranza si sente sotto attacco e si calca l’elmetto in testa.
In ballo sembra esserci molto più dei singoli casi. La convinzione che circola fra Via Arenula e Palazzo Chigi è che si tratti di mosse politiche, in cui si legge una reazione alla riforma della separazione delle carriere. Probabilmente un tentativo in extremis di dialogo andato in fumo, proprio nel momento in cui la discussione in Senato si avvia alla conclusione.
Il voto finale dell’assemblea di Palazzo Madama potrebbe arrivare già martedì. E trattandosi dello stesso testo già votato a gennaio dalla Camera, è chiaro che da questo momento in avanti non ci saranno più modifiche, entro fine anno potrebbe arriva il secondo passaggio in entrambe le Camere e nella prossima primavera il referendum confermativo.
Che il sospetto della maggioranza non sia del tutto infondato lo dice con preoccupazione persino il presidente dell’Unione delle Camere Penali, Francesco Petrelli. Secondo lui lo scontro permanente fra politica e magistratura si acuisce all’avvicinarsi del varo della riforma, ma ad essere danneggiati, lamenta, saranno soprattutto i cittadini semplici.
Le voci dialoganti dentro la magistratura sono sempre più flebili: il presidente dell’ANM Cesare Parodi vede come preoccupante la dura reazione di Nordio al ricorso in Cassazione della Procura di Palermo, e invita il governo ad accettare critiche. L’idea di rendere inappellabili le assoluzioni piene allarga ulteriormente il solco. Solo il procuratore nazionale antimafia Giovanni Melillo prova a chiedere di abbassare i toni, ricordando quanto sia importante l’indipendenza delle toghe.
La separazione delle carriere è però l’unica riforma su cui i partiti di maggioranza parlano all’unisono. Una situazione ben diversa da premierato e autonomia differenziata. E quindi, avanti tutta. Il viceministro della Giustizia Francesco Paolo Sisto, Forza Italia, stigmatizza come eccessi di antagonismo gli atteggiamenti della magistratura. Da Lega e Fratelli d’Italia parole non distanti.
Per paradosso anche l’inchiesta di Milano è parsa a Meloni e ai suoi la conferma di toghe debordanti, che con loro inchieste tendono a indirizzare le scelte della politica, poco importa se si tratti di compagini di destra o di sinistra.
Ecco perché da Palazzo Chigi è filtrato il caldo suggerimento ai dirigenti meneghini a non esultare troppo per i guai giudiziari del sindaco Sala e della sua giunta. La situazione è poco chiara, ma si tratta di una questione di principio: quando la premier dice che un avviso di garanzia non deve portare automaticamente alle dimissioni di un amministratore lo fa perché è inaccettabile lo strapotere delle toghe, anche se ad essere indagati sono gli avversari. E quindi la (quasi) solidarietà a Sala vale anche per gli esponenti del centrodestra (Santanchè su tutti).
Il rischio che l’incendio dilaghi appare, quindi, concreto. Il Quirinale di questo non può che dirsi preoccupato, dal momento che Mattarella ha sempre fatto tutto ciò che è in suo potere per disinnescare lo scontro fra politica e magistratura, anche nelle sue vesti di presidente del CSM.
Oggi però il Capo dello Stato appare spettatore impotente dell’epilogo imminente di uno scontro trentennale, in cui la politica appare a un passo dal ridisegnare i rapporti di forza fra i poteri dello Stato. Certo, la riforma andrà attuata, c’è molto da fare e forse un modus vivendi potrà essere trovato. Il dado, però, sembra ormai tratto.
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