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Home » Cultura » CONCILIO DI NICEA/ “Il nostro cuore ha Qualcuno di più grande da imitare, evitiamo l’errore di Ario”

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CONCILIO DI NICEA/ “Il nostro cuore ha Qualcuno di più grande da imitare, evitiamo l’errore di Ario”

Int. Alberto Cozzi
Pubblicato 24 Luglio 2025
Icona proveniente dal monastero di Mégalo Metéoron in Grecia, rappresentante il primo concilio ecumenico di Nicea

Icona proveniente dal monastero di Mégalo Metéoron in Grecia, rappresentante il primo concilio ecumenico di Nicea

Seconda parte dell’intervista al teologo don Alberto Cozzi in occasione del 17esimo centenario del Concilio di Nicea (2)

Torniamo a parlare con don Alberto Cozzi del Concilio di Nicea, in occasione del 17esimo centenario (325-2025). Cozzi è docente di teologia sistematica nella Facoltà teologica dell’Italia Settentrionale, l’Istituto superiore di scienze religiose e il Seminario arcivescovile di Milano e membro della Commissione teologica internazionale.


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Nella prima parte dell’intervista avevamo visto il ruolo di Costantino, il guadagno teologico del concilio ovvero la consustanzialità tra il Padre e il Figlio, e alcune questioni contemporanee, come il senso e la sfida di Nicea all’“ateismo semantico” della nostra epoca. In questa seconda e ultima parte si vedrà come l’unità del padre del figlio determina un nuovo modo di pensare – “la differenza essenziale sta dunque nel rapporto tra l’intelligenza e il cuore, tra la comprensione del dato rivelato e la disponibilità a lasciarsi trasformare da esso”, spiega Cozzi –. Enormi le implicazioni, a cominciare dalla formulazione condivisa del Credo e dalla sua importanza nel lavoro ecumenico.


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Professor Cozzi, la riflessione antropologica cristiana affonda le sue radici nella fede trinitaria e nella figliolanza in Cristo, “vero Dio e vero uomo”. Qual è la grande sfida che questa visione dell’uomo deve affrontare oggi?

Qualcosa di questa sfida l’aveva già intuita nella prima metà del 1800 il beato cardinale John Henry Newman nelle sue opere sull’eresia ariana del IV secolo. In alcune dense pagine ci metteva in guardia da una forma di cristianesimo che cerca nel Vangelo verità che interpellano l’intelligenza piuttosto che il cuore, valori umani che confermano la nostra esperienza piuttosto che trasformarci per aprire il nostro orizzonte di senso a un destino più alto.


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“L’intuizione di fondo – sono le parole di Newman – è che l’eresia ariana non è nella storia della Chiesa un episodio isolato, ma l’esplosione clamorosa di un conflitto tra due modi di concepire il cristianesimo: gli ariani lo concepiscono come la rivelazione di una verità che si rivolge soprattutto all’intelligenza, mentre gli ortodossi lo concepiscono come una forza rigeneratrice che si rivolge all’uomo in tutte le sue facoltà, e innanzitutto al cuore. Questo diverso modo di concepire il cristianesimo comporta un modo diverso di accostarlo: gli ariani accostano la rivelazione con la preoccupazione di comprenderla, come qualcosa che parla anzitutto all’intelligenza, per cui i concetti e le categorie scritturistiche ed ecclesiastiche sono interpretate secondo le esigenze dell’intelligenza che ragiona”.

Alla luce di questa intuizione, qual è la sfida di Nicea?

Quella di pensare e dire l’unità di Padre e Figlio non in base all’esperienza umana di unità, ma fondandosi sull’esperienza dell’unità in Cristo, cioè nell’orizzonte di una vita nuova, trasformata da Dio nel suo Spirito: “Così l’unità di Dio viene interpretata [nell’arianesimo] alla luce del concetto di unità che si ricava dall’esperienza, e in tale prospettiva la vera divinità di Cristo non può conciliarsi con la unità divina, e viene negata. I cattolici, invece, accostano la rivelazione innanzitutto per ammirare ciò che Dio compie nella storia e nell’uomo.

La loro prima preoccupazione è quella di contemplare la profondità e il carattere straordinario di ciò che Dio ha compiuto, e per salvaguardarne la trascendenza sono disposti ad accogliere un nuovo modo di pensare: a concepire l’unità divina in modo che accanto al Padre si dichiari veramente Dio anche il Figlio e si onori allo stesso modo lo Spirito Santo. La differenza essenziale sta dunque nel rapporto tra l’intelligenza e il cuore, tra la comprensione del dato rivelato e la disponibilità a lasciarsi trasformare da esso”.

Cosa implica questo approccio?

Ne deriva la differenza radicale nel modo di conoscere. La fede esige una trasformazione del pensiero, perché questo si disponga ad accogliere la novità di Cristo lasciandosi dilatare oltre le misure consuete: “Ma c’è anche una diversità nel procedimento intellettuale: gli ariani interpretano le parole e i concetti usati nella sacra scrittura e nella tradizione ecclesiale secondo i dati dell’esperienza comune, mentre i cattolici prendono come punto di riferimento il mistero cristiano così come è vissuto nella Chiesa.

Questo spiega come i concetti di padre e figlio riferiti a Dio e a Gesù siano intesi in maniera così diversa. I cattolici, invece, prendono come punto di riferimento la paternità di Dio e la fraternità in Cristo quali sono vissute dai battezzati ed argomentano così:

siccome i battezzati vivono un rapporto nuovo con Dio Padre e con Gesù, un rapporto radicalmente diverso da quello che c’è con il padre e i fratelli secondo la carne, perché grazie ad esso si è una cosa sola con il Figlio e con il Padre, pur conservando ciascuno la sua inconfondibile personalità – i concetti di padre e figlio, quando sono riferiti a Dio, debbono essere intesi diversamente” scrive E. Bellini nella sua Introduzione a J.H. Newman, Gli ariani del IV secolo (Jaca Book-Morcelliana, Milano 1981, p. 21-27) dove sta parafrasando brani dell’Apologia pro vita sua di Newman.

La formula del Credo approvata a Nicea (325) e confermata a Costantinopoli (381) è riconosciuta anche da altre confessioni cristiane, oltre a quella cattolica. Quali sono oggi i principali punti di convergenza ecumenica attorno ad essa, e quali rimangono i nodi teologici ancora da sciogliere?

La fede nicena è la base condivisa per il dialogo ecumenico, l’espressione adeguata della fede apostolica e come tale è condivisa dai cristiani. Ci sono però diverse sensibilità nel considerare il valore normativo della professione di fede e quindi dei contenuti del Credo. In molte confessioni cristiane si dà più spazio all’atto di fede come esperienza di vita nuova e alla lettura della Scrittura sacra, mentre la Tradizione, coi suoi dogmi, passa in secondo piano, pur essendo riconosciuta.

Cattolici e ortodossi invece danno un grande valore al simbolo niceno, anche se l’aggiunta della precisazione fatta dai cattolici riguardo allo “Spirito che procede dal Padre e dal Figlio” – aggiunta maturata dal V secolo in ambito latino, ma inserita nel Credo ufficialmente dopo il 1000 –, ha creato una forte divisione dottrinale, la questione del “Filioque”.

Comunque, il simbolo niceno rimane una pietra miliare della fede comune e la cosa è sorprendente, soprattutto se si considera che inizialmente creò molte grandi divisioni nel cristianesimo e chiese un lungo processo sinodale di ricezione e dialogo, che si concluse col Concilio di Costantinopoli del 381. In quegli anni venne plasmata e forgiata una formulazione condivisa della fede cristiana riguardo al vero volto di Dio, Trinità consustanziale ed eterna.

Ci sono stati dei richiami recenti al valore del simbolo di Nicea?

Sì, l’importanza ecumenica del simbolo di Nicea è stata messa in evidenza da papa Francesco nella Bolla di indizione del Giubileo (Spes non confundit, n. 17, del 2024): “Il Concilio di Nicea è una pietra miliare nella storia della Chiesa. L’anniversario della sua ricorrenza invita i cristiani a unirsi nella lode e nel ringraziamento alla Santissima Trinità e in particolare a Gesù Cristo, il Figlio di Dio, ‘della stessa sostanza del Padre’, che ci ha rivelato tale mistero di amore. Ma Nicea rappresenta anche un invito a tutte le Chiese e comunità ecclesiali a procedere nel cammino verso l’unità visibile, a non stancarsi di cercare forme adeguate per corrispondere pienamente alla preghiera di Gesù (Gv 17,21)”.

Il Credo parla di “risurrezione dei morti” e di “vita eterna”. Come possiamo comprendere queste verità di fede in un mondo dominato da una mentalità fortemente influenzata dal materialismo e dalla scienza? E come possiamo trasmetterle in modo che siano comprensibili e significative anche per le nuove generazioni?

L’annuncio della risurrezione e il destino di vita piena in Cristo fa parte dell’annuncio originario ovvero del “kerigma” fin dal principio. Nicea non fa che riprendere un articolo di fede essenziale caratteristica della fede battesimale.

Una via interessante per riscoprire questo annuncio come buona notizia potrebbe essere quella di recuperare il valore simbolico della realtà materiale, il carattere di segno di ciò che è, a partire dal corpo: la realtà materiale e corporea rimanda ad altro e spinge oltre sé. Non è mai solo materia bruta da usare per i propri scopi, ma traccia di qualcosa di più grande, frammento di una totalità più vasta e in connessione, una rete di realtà dinamiche e/o viventi, che pulsano un’energia piena di informazioni che si organizza in dinamiche in espansione.

Ciò che chiamiamo Figlio o Logos indicava questa rete intelligibile e simbolica di significati e rimandi in cui viviamo e scrutiamo il nostro mistero. Il Risorto è anticipazione del compimento di questo processo cosmico pieno di vita, come scrisse papa Francesco nella Laudato Si’ (2015) ai n. 79-83: “Lo Spirito di Dio ha riempito l’universo con le potenzialità che permettono che dal grembo stesso delle cose possa sempre germogliare qualcosa di nuovo:

‘La natura non è altro che la ragione di una certa arte, in specie dell’arte divina, inscritta nelle cose, per cui le cose stesse si muovono verso un determinato fine’. […] Il traguardo del cammino dell’universo è nella pienezza di Dio, che è stata già raggiunta da Cristo risorto, fulcro della maturazione universale. In tal modo aggiungiamo un ulteriore argomento per rifiutare qualsiasi dominio dispotico e irresponsabile dell’essere umano sulle altre creature.

Lo scopo finale delle altre creature non siamo noi. Invece tutte avanzano, insieme a noi e attraverso di noi, verso la meta comune, che è Dio, in una pienezza trascendente dove Cristo risorto abbraccia e illumina tutto. L’essere umano, infatti, dotato di intelligenza e di amore, e attratto dalla pienezza di Cristo, è chiamato a ricondurre tutte le creature al loro Creatore”.

Proprio perché ha a che fare con la materia, l’essere umano dovrebbe sentir vibrare una tensione al compimento, già anticipato nel Risorto, che ci attira a sé (cfr. Gv 12,32).<

(2 – fine)

(Nicola Ruisi)

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