Nuova sentenza della Consulta: è inammissibile l'intervento di un'altra persona nella somministrazione del farmaco, ma solo perché deve farlo il SSN
La legge sul fine vita costituisce uno dei dibattiti più accesi e conflittuali di questa legislatura e segna un’ulteriore spaccatura tra maggioranza e opposizione, ma marca anche specifiche differenze nell’area del centrodestra, ed è in questo clima che va letta ed interpretata la sentenza pronunciata ieri dalla Corte Costituzionale.
La sentenza ha un indubbio sapore di ambiguità che ne renderà difficile l’applicazione, anche qualora la si voglia considerare come il tentativo di chi vuol dare ragione un po’ all’una e un po’ all’altra parte, creando una sostanziale confusione.
Si tratta di un nuovo “no” della Consulta all’eutanasia, ma nello stesso tempo i giudici insistono sul ruolo del Servizio sanitario nazionale nel ricorso al suicidio assistito: è, infatti, inammissibile che un terzo somministri il farmaco letale, perché il paziente ha il diritto di essere accompagnato nell’iter del suo suicidio assistito proprio dal SSN.
E il ruolo del SSN è uno dei temi più dibattuti nella legge sul fine vita in discussione al Senato.
Nella stessa sentenza di ieri la Corte, respingendo le ragioni della signora Libera che avevano indotto i suoi legali al ricorso, non entra affatto nel profilo giuridico-motivazionale che avrebbe pericolosamente avvicinato la depenalizzazione dell’articolo 580 del CP (suicidio assistito) all’articolo 579 (omicidio del consenziente).
Fa invece una pesante osservazione sulla mancata ricerca dei dispositivi necessari per l’autosomministrazione e si chiede perché non siano stati coinvolte altre realtà, come, ad esempio, l’Istituto superiore di sanità. Ossia fa una riserva sul “come”, sulle modalità, ma non sulle ragioni, sui “perché”.
“Il Servizio sanitario nazionale è tenuto – sottolinea la decisione – all’esplicazione di un doveroso ruolo di garanzia che è, innanzitutto, presidio delle persone più fragili”.
In altri termini, ai più fragili andrebbe garantita la morte e non un accompagnamento proprio delle cure palliative, a cui nell’attuale sentenza non si fa alcun riferimento, nonostante siano, per generale riconoscimento, la più potente ed efficace forma di accompagnamento, proprio nella fase del fine vita. In questa prospettiva il dovere prioritario del SSN sarebbe quello di facilitare e garantire la morte e non quello di prendersi cura del paziente e della sua vita fino alla fine.
La nuova sentenza sembra riferirsi a un “diritto ad essere accompagnati” nel suicidio assistito, nonostante le precedenti sentenze della Corte – la 242/2019 e la 135/2024 – avessero esplicitamente escluso l’esistenza di un diritto a morire e si sofferma sulla superficialità, sul mancato impegno, nella reperibilità di mezzi e strumenti che avrebbero facilitato la morte della signora Libera.
Sorprende questo cortocircuito contraddittorio della Corte, ma ancor più sorprende l’assoluta tempistica con cui la sentenza esce, vale a dire in un momento delicatissimo del dibattito parlamentare, in cui sembra quasi che voglia intervenire per forzare la mano in una precisa direzione.
Non a caso il senatore Bazoli (Pd), autore di un ddl ben più aperturista di quanto non lo sia il testo base della maggioranza rispetto alle soluzioni estreme del fine vita, dopo questa sentenza della Corte chiede di cambiare con urgenza il testo base, che dovrebbe arrivare in Aula ormai a settembre.
D’altra parte, non può non richiamare l’attenzione la puntualità con cui la Corte interviene abitualmente per dettare al legislatore i punti caratterizzanti delle leggi in discussione. Non a caso il testo base della proposta di maggioranza sul fine vita ha come titolo “Modifica all’articolo 580 del Codice penale e ulteriori disposizioni esecutive della sentenza n. 242 della Corte costituzionale del 22 novembre 2019”.
Il ddl assume come base la sentenza 242, dimostrazione inequivocabile del potere persuasivo della Corte, e la interpreta in modo parzialmente restrittivo proprio per ovviare al rischio di una ulteriore spinta in senso eutanasico.
Al momento il testo-base in discussione prevede l’esclusione del SSN dai percorsi di fine vita tramite suicidio assistito, proprio per salvaguardarne la vocazione specifica, che è quella di prevenire, curare e riabilitare. Non di accelerare la morte, in nessun modo e in nessun caso. Per questo la nuova sentenza sarà oggetto di un confronto anche più aspro tra maggioranza e opposizione, perché riguarda a tutto tondo il ruolo del SSN.
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