I problemi economico-sociali che l'Italia ha davanti vengono oggi acuiti dai possibili impatti dei dazi Usa
È passata un po’ sotto silenzio la stima preliminare del Pil pubblicata dall’Istat mercoledì scorso, secondo la quale nel secondo trimestre il prodotto lordo si è ridotto dello 0,1%. È un cambiamento minimo, sia chiaro, ma sono pur sempre 327 milioni di euro. A parte la cifra assoluta quel che preoccupa è il segno meno.
Non c’è da fare gli allarmisti, però chiunque voglia usare il buon senso non può non dirsi preoccupato. Nessuna recessione alle porte e vedremo come andrà l’estate appesa soprattutto al turismo. La crescita acquisita finora è 0,5%, ciò secondo il ministro dell’Economia conferma la stima di un aumento dello 0,6% quest’anno. Anche Giorgetti, insomma, prevede che di qui a dicembre potremo aggiungere solo un decimale di punto. Quanto al 2026 dovremo mettere in conto le tariffe di Trump che tagliano uno 0,6% di Pil secondo il Mef. Dunque stiamo entrando in quel territorio minato che si chiama stagnazione.
I problemi economico-sociali che abbiamo di fronte non hanno soluzioni facili: un’inflazione che insiste a non scendere se prendiamo il carrello della spesa; salari reali che sono più bassi di sette punti percentuali rispetto al 2021; investimenti privati in stand-by vista l’incertezza provocata dalla politica americana; quelli pubblici, concentrati nel Pnrr, finora non sono stati in grado di fare differenza; l’impatto dei dazi che secondo alcune stime peserebbe per circa 23 miliardi di euro soprattutto su un’industria che non cresce da oltre due anni; una produttività che si riduce perché l’occupazione aumenta più del Pil, situazione paradossale tutta da spiegare.
Cominciamo dai prezzi. Il dato macro sull’inflazione fa ben sperare, siamo ormai sotto il 2% (addirittura 1,7% a luglio), il numero magico che consente alla politica monetaria di allentare le redini e la Bce ha già portato i tassi di riferimento al 2% quelli sui depositi e al 2,15% quelli sui rifinanziamenti. Ma allora come mai i prezzi alimentari aumentano del 5,1% per quelli freschi e del 3,1% per i lavorati? Non solo, i trasporti segnano un +3,4% e i prezzi regolamentati che dovrebbero servire da àncora stabile sono cresciuti addirittura del 16,7%, mentre quelli liberi sono scesi del 5,8%.
C’è qualcosa che non funziona o nei calcoli o nella realtà quotidiana. Donald Trump risolve a modo suo le contraddizioni statistiche: ha licenziato Erika McEntarfer, responsabile per le statistiche del lavoro, accusandola di aver falsificato i dati per scopi politici. La crescita di posti di lavoro rallenta e il Presidente non può più dire che la sua politica è un successo.
Speriamo che anche in Italia non parta un tiro al piccione, anzi allo statistico, e si cominci invece a ragionare su che cosa non funziona. C’è speculazione? I commercianti hanno introiettato costi che continuano a scaricare sui prezzi finali, i quali crescono anche se la domanda interna ristagna e non è in grado di compensare quella estera. Si può agire intensificando i controlli anche usando l’Agenzia delle entrate, la Grande Sorella che conosce ogni angolo delle nostre tasche?
L’inflazione del 2023-2024 è stata micidiale. I salari reali sono in continua discesa. Gli aumenti contrattuali di quest’anno sono in media del 2,2%, dunque non riusciranno a recuperare la perdita subita. Tanto meno se ragioniamo sul vero potere d’acquisto. Dunque, la questione salariale resta al primo posto, o meglio è l’altro corno della questione industriale che né il Governo, né gli stessi sindacati vogliono prendere di petto.
Ma allora l’occupazione? Non fa aumentare il monte salari? Certo, eppure se guardiamo al di là del velo statistico scopriamo una realtà molto meno positiva. L’osservatorio dell’Università Cattolica ha esaminato le componenti della nuova occupazione e ha trovato che per oltre il 50% si tratta di posti di lavoro in settori a basso valore aggiunto e, come nel caso dei servizi, a basso salario.
Tra il quarto trimestre del 2022 e il quarto trimestre del 2024, il prodotto lordo è cresciuto dell’1,1% e il numero degli occupati del 3% (una quota che tiene conto delle stime sul lavoro nero). In cifre assolute si tratta di 778mila nuovi posti di lavoro. Ma che tipo di posti?
Per ogni cento nuovi occupati, 42 sono nel commercio, 19 nella Pubblica amministrazione e 14 nelle costruzioni (queste ultime hanno tratto beneficio dal Superbonus). Appena 10 sono nell’industria manifatturiera e solo 2 nell’energia. Il commercio ha salari più bassi degli altri settori economici, seguito dall’edilizia. Si spiega così perché il valore aggiunto totale è cresciuto meno dell’occupazione, perché la sua distribuzione non non ha migliorato la quota delle retribuzioni e perché nell’insieme la produttività è scesa.
Potrà essere colpa della Germania, di Trump o della Cina, ma è sciocco cercare capri espiatori. Il dato di fondo è che negli ultimi due anni la situazione interna, quella della “economia domestica”, non ha fatto veri passi avanti. Ancor più deludente è l’impatto del Pnrr che avrebbe dovuto accrescere il prodotto lordo in quantità e in percentuale. L’effetto per ora non si è visto.
È vero che si tratta di investimenti e di lavoro che non danno i loro frutti nell’immediato, ma il piano è stato approvato nel 2021, il primo finanziamento da 24,9 miliardi, tra prestiti e fondo perduto, è arrivato nell’agosto di quell’anno e nel 2026 quel che non è stato utilizzato andrà restituito.
Occorre, insomma, mettere finalmente l’economia al primo posto prima che l’urgenza diventi emergenza. Si parla di un confronto a tre, Governo, sindacati, industriali, si evocano nuovi patti sociali, ma a parte le difficoltà politiche (come portare a bordo la Cgil di Landini?) non si capisce ancora nulla sui contenuti, quali dossier mettere sul tavolo e come affrontarli. Speriamo che il ferragosto porti consiglio.
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