L’autorità dei docenti è minata innanzitutto dallo scarso prestigio sociale. Perché perpetuare i difetti del sistema invece di voltare pagina?
I fatti di cronaca, che sempre più spesso rappresentano episodi di aggressività verso i docenti, inducono il ministro Valditara – e con lui gli osservatori più qualificati delle vicende scolastiche – a porre il tema del ruolo sociale del corpo insegnante e della mancanza di prestigio che purtroppo connota la funzione.
Nulla di nuovo sotto il sole, ma pare che il ministero – per ciò che rientra nel suo ambito di competenza – si muova con maggiore determinazione. In questa prospettiva, si spiega, ad esempio, il recente varo legislativo della normativa su quelli che, qualche tempo fa, erano definiti, con un termine più antico, come voti di “condotta” e che oggi rientrano nella categoria più attuale del “comportamento”.
Come è noto, essi incidono sul credito scolastico per l’esame di Stato e il “6” impone una prova di recupero, prima dell’inizio del nuovo anno scolastico, la quale, se non superata, impedirebbe l’accesso alla classe successiva.
La questione dell’educazione civica, dunque, ha assunto una centralità ed è chiaro come essa riverberi conseguenze dirette e indirette sul riconoscimento del ruolo docente e, in particolare, della sua autorevolezza. Tuttavia, se è ovvio rilevare come la questione dello scarso prestigio travalichi di gran lunga la portata delle scelte ministeriali, non è superfluo osservare che la strategia politica di una possibile ricostruzione d’immagine tragga fondamento proprio dall’ambito scolastico.
In altri termini, sono le scelte normative compiute all’interno del mondo educativo a rappresentare la conditio sine qua non per il recupero, a livello sociale, del prestigio professionale. A questo punto giova considerare la situazione di un Paese come la Finlandia, in cui il ruolo professionale dei docenti è assimilabile a quello di professionisti come medici e ingegneri. Come è possibile una reputazione di portata così diversa da quella nostrana?
Osservo, anzitutto, che in quel Paese la formazione e l’aggiornamento dei docenti sono parte del tempo di lavoro retribuito e rappresentano pratiche fondamentali, attuate all’interno di comunità professionali. Un altro mondo, rispetto a quanto avviene da noi, dove l’aggiornamento, pur essendo obbligatorio ai sensi della legge 107/2015 (“Buona Scuola”), fino a qualche tempo fa era affidato, per la quantificazione oraria, ai collegi dei docenti, che ovviamente ponevano obblighi minimali per non urtare la sensibilità dei colleghi sindacalmente ostili.
Oggi esso è del tutto marginalizzato e compresso, dacché ha acquisito una natura residuale all’interno del monte ore dedicato alle attività di partecipazione ai consigli di classe e a quelle relative ai collegi, agli incontri con le famiglie, ecc.
Ovviamente il contratto nazionale di comparto non dice che tutta la formazione debba essere limitata a quel tempo restante, ma ormai le prassi consolidate confinano la formazione solamente a quelle ore. A questo punto, è opportuno chiedersi: Dal momento che tutte le attività professionali, in quanto tali, prevedono un aggiornamento obbligatorio più o meno costante, come è possibile riqualificare il ruolo dei docenti senza comprendere un’adeguata attività di quel tipo?

Tuttavia, ciò che salta agli occhi dalla comparazione del nostro sistema scolastico con quello finlandese sono le modalità di selezione del corpo docente. La loro formazione iniziale è altamente selettiva e comprende un master universitario quinquennale.
I candidati sono fortemente selezionati per l’accesso alle facoltà di scienze della formazione e solamente un 10-15% viene ammesso. La valutazione comprende anche colloqui di natura motivazionale, attitudinale e attinente alle capacità comunicative interpersonali.
Compiuti gli studi, i laureati praticano un tirocinio duraturo e strutturato, finalizzato alla costruzione di una professionalità critica e fortemente autonoma. Le assunzioni poi vengono decentralizzate, in maniera tale da corrispondere ai bisogni delle singole scuole e del territorio.
Anche in questo caso, si può vedere un altro mondo rispetto al nostro. Ovviamente, l’intera società finlandese in qualche modo accoglie i valori di centralità del mondo educativo (di cui si riconosce l’importanza ai fini dello sviluppo economico) e quelli meritocratici riguardanti le professioni.
Invece la realtà italiana, come suggeriva Sabino Cassese sul Corriere della Sera dello scorso 5 agosto, considera la pubblica amministrazione come un sistema di welfare, al punto che, nella scuola, sono prevalse fino ad oggi procedure di “sanatoria” per l’immissione nei ruoli.
Penso che il ministro Valditara abbia cercato di restituire una parziale dignità ai concorsi, ripristinando forme selettive, anche se i dati complessivi sugli esiti degli stessi non si riscontrano nel sito ministeriale in forma aggregata, ma si hanno solamente quelli pubblicati dagli uffici scolastici regionali. Credo, tuttavia, che la volontà del ministro sia inficiata, almeno parzialmente, dalla funzione di alcune università, le cui scelte, vantaggiose economicamente, allargano le maglie dell’accesso ai corsi di formazione.
Non sono del tutto sicuro (proprio perché non ho uno sguardo statistico complessivo), ma non credo di sbagliarmi se affermo che alcune università (certamente non quelle più prestigiose, pubbliche o private che siano), non avendo un numero adeguato di candidati, abbiano scelto un’ammissione generalizzata, cui difficilmente seguiranno prove fortemente selettive. Mi riferisco, ad esempio, ai corsi per la formazione sul sostegno (TFA).
Resta di fatto che il primo passo per la rivalutazione professionale del corpo docente e per l’acquisto di una rinnovata autorevolezza richiede una selezione adeguata, finalizzata, cioè, a riconoscere e valorizzare la qualità professionale. Da questo punto di vista, dubito che i concorsi centralizzati possano funzionare e che il sistema delle graduatorie per le supplenze possa garantire una tale qualità.
La ricetta, a mio avviso, è quella del potenziamento dell’autonomia, che consenta alle scuole di leggere e interpretare il fabbisogno territoriale, ma la sua revisione comporta anche la riforma dei decreti delegati di più di mezzo secolo fa. Auguro al ministro di trovare il coraggio di attuare queste riforme, nonostante la totale e perniciosa avversione dei sindacati.
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