Suor Aziza è stata 14 anni con i beduini palestinesi e le africane rifugiate. Ecco perché la Palestina è distrutta e come si può arrivare alla pace
La pace nasce dalla condivisione della sofferenza: israeliani e palestinesi devono comprendere il dolore degli altri, per le morti del 7 Ottobre o per quelle della guerra che ne è nata. Solo così si possono ricostruire ponti fra due popoli ora sempre più contrapposti. Azezet Habtezghi Kidane, detta suor Aziza, 67 anni, religiosa comboniana, eritrea di origine e cittadina britannica, lo spiega alla luce di 14 anni passati in Terra Santa, insieme ai beduini palestinesi, agli israeliani delle associazioni per i diritti umani, alle donne africane fuggite dai loro Paesi, alle quali per un periodo è riuscita a dare lavoro grazie a una cooperativa.
Un’esperienza che porterà oggi al Meeting di Rimini, nell’incontro “Madri per la pace”, moderato da Alessandra Buzzetti, giornalista, corrispondente di TV2000 dalla Terra Santa, cui parteciperà con Layla al-Sheik, madre musulmana di Betlemme che ha perso il figlio Qusay nella seconda Intifada, ed Elana Kaminka, israeliana, madre di Yannai, soldato ucciso il 7 ottobre 2023.
Suor Aziza, 14 anni passati in Terra Santa: che cosa ha insegnato questa esperienza?
Sono stata 14 anni in Terra Santa, uno anche in Giordania: in tutto sono 15. Posso dire che per me è stata una benedizione, perché riesco a capire veramente Gesù: il suo sangue scorre ancora in quella terra martoriata, dove la gente continua a soffrire. Lì ho avuto la fortuna di lavorare con due popoli: con i beduini, i palestinesi più bisognosi, che però sono stati ricchi portatori di una grande cultura e saggezza, ma anche con gli israeliani, specialmente quelli che si impegnano per la giustizia, per l’uguaglianza, per capire la sofferenza dell’altro.
Cosa hai imparato da loro?
Ho imparato tanto con i dottori che si impegnano per i diritti umani: anche se non credevano in Dio, si donavano totalmente. Noi cristiani, e anche i musulmani, forse facciamo la carità perché il Signore ci ricompensa: ho sempre sentito dire che quello che voglio per me devo farlo agli altri. Ma io ho visto questi medici operare senza ricevere alcun compenso, interventi molto costosi per i quali non si sono fatti pagare niente. I beduini, invece, mi hanno accolto con la loro ospitalità, la loro sofferenza silenziosa, la volontà di rimanere nella loro terra nonostante siano senza acqua, senza luce, senza strade.
Come si è arrivati alla situazione attuale di contrapposizione tra due popoli?

Non sono una politica, ma ho vissuto là e penso che il mondo in questi anni abbia lasciato fare agli israeliani: non è intervenuto quando sono aumentati gli insediamenti e sono stati violati gli accordi. Tante volte mi sono chiesta che diritto avessero di fare certe cose. Ho visto distruggere le baracche dei beduini, ma il mondo non se ne è curato. Adesso è tardi, e non è la guerra del 7 Ottobre che ha creato questo clima.
Tante associazioni, anche israeliane, hanno fatto sentire la loro voce su questo, ma nessuno le ha ascoltate. Penso ai Medici per i diritti umani, che sono arabi e israeliani; ai Combattenti per la pace, un altro movimento israelo-palestinese; a Breaking the Silence; ai Rabbini per i diritti umani. Ci sono tantissimi movimenti attivi in questo campo.
La speranza per la Palestina nasce dal lavoro di queste associazioni?
Sono loro che hanno portato un po’ di luce, che danno la possibilità di incontrarsi, di riconoscere il volto dell’altro. Bisogna capire il dolore dell’altro, altrimenti si rimane chiusi nella propria sofferenza.
Una delle esperienze di condivisione è stata quella della cooperativa Kuchinate, nella quale lavoravano centinaia di donne africane rifugiate. Ora, purtroppo, è stata chiusa. Un altro effetto nefasto della guerra?
Questa organizzazione è nata grazie al servizio dell’ONU per i rifugiati. Avevano un centro in cui venivano accolte le donne che arrivavano dal deserto, spesso abusate, traumatizzate, con i bambini al seguito o incinte. Poi questa struttura è stata chiusa e siamo riusciti ad aprire un asilo grazie a un’organizzazione italiana che ci ha aiutato a sostenere le donne e ad affittare una casa.
Ma anche questo centro è stato chiuso: c’erano una trentina di donne che non sapevano cosa fare, allora insieme a una psicologa abbiamo deciso di trovare un modo per farle lavorare. Una fabbrica ha iniziato a darci del materiale e le donne hanno realizzato oggetti all’uncinetto, borse e altri manufatti. Poi, però, è arrivato il Covid e l’attività è rimasta chiusa un paio di mesi. Siamo riusciti lo stesso a garantire dei salari, ma è arrivata anche la guerra. C’erano tanti gruppi italiani, da Trento, Bergamo e altri posti, che compravano, e si lavorava anche per il mercato israeliano, ma con il conflitto non è stato più possibile. Avevamo con noi 400 donne: la situazione non era più sostenibile.
Al Meeting parteciperai oggi alle 12 a un incontro intitolato “Madri per la pace”. In un contesto di dolore e sofferenza come quello del Medio Oriente, e della Palestina in particolare, da dove si può partire per riaffermare la pace?
La pace comincia dal confronto tra una donna israeliana il cui figlio è stato ucciso il 7 Ottobre e una palestinese che ha perso il suo perché gli israeliani non gli hanno permesso di spostarsi per vedere un medico. Dobbiamo incoraggiare questi incontri per capire il dolore dell’altro. Tutto nasce dalla condivisione della sofferenza.
(Paolo Rossetti)
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