Il ricordo di Giorgio Armani del ceo di Twinset, Alessandro Varisco: "Ha reso elegante la donna senza orpelli e addolcito l'uomo senza togliergli forza"
Il 4 settembre si è spento a 91 anni Giorgio Armani, fondatore dell’omonimo gruppo e simbolo assoluto del Made in Italy. La notizia ha scosso il mondo della moda e non solo. Lo stilista, definito da molti il “rivoluzionario silenzioso”, ha lasciato un segno profondo, cambiando l’immaginario estetico di più generazioni. Per riflettere sul suo lascito, abbiamo intervistato Alessandro Varisco, CEO di Twinset, che ricorda Armani come “un uomo che non ha mai fatto rumore, ma ha saputo costruire la moda stessa”.
Giorgio Armani è stato definito più volte il “rivoluzionario silenzioso” della moda. Perché questa definizione è così calzante?
Credo che Armani abbia incarnato l’idea stessa di rivoluzione senza mai alzare la voce. È stato coerente fino in fondo, non ha mai inseguito le tendenze: le creava. Quello che mi colpisce è che non ha mai fatto nulla per stupire in modo chiassoso. Ha reso elegante la donna senza orpelli e ha addolcito l’uomo senza privarlo di forza. Una rivoluzione silenziosa, appunto, perché non gridata ma impossibile da ignorare.
Lei ha raccontato un ricordo personale, di quando lo vide allestire vetrine a tarda notte. Cosa le rimase impresso di quell’episodio?
Mi colpì la dedizione. Era quasi mezzanotte, io giravo in bicicletta e lo vidi ancora lì, nelle sue vetrine, a sistemare personalmente i dettagli. Poi, poco dopo, lo ritrovai davanti ad altre boutiques, a osservare cosa facessero gli altri. Era un uomo che non delegava lo sguardo: ci metteva sempre il suo. Non mi conosceva, ma bastava incrociarlo per percepire il garbo, la signorilità. È stato questo, oltre al talento, a renderlo unico.
Molti sottolineano come abbia “mascolinizzato” la donna e, al tempo stesso, “femminilizzato” l’uomo. Un’affermazione forte: cosa si intende dire esattamente?
Armani ha giocato con i contrasti. Ha regalato alle donne la giacca, un capo tradizionalmente maschile, rendendole più strutturate, più forti. E agli uomini ha tolto rigidità, li ha resi più morbidi, più affascinanti, persino più dolci. Se pensiamo ad American Gigolo negli anni Ottanta, capiamo bene questa rivoluzione. Era una moda che liberava i corpi, che sfidava le convenzioni senza bisogno di proclami.
In altre parole, secondo lei Armani non si è mai piegato alle regole del mercato, è corretto?
Esattamente. Non ha mai fatto compromessi. La sua indipendenza personale si è tradotta in indipendenza imprenditoriale. In un settore dove spesso si inseguono le tendenze, lui restava fedele al proprio immaginario. Non era il mercato a dirgli cosa fare: era lui a definire la direzione. E credo che questo sia uno degli insegnamenti più forti che lascia.
Armani e Milano: un legame indissolubile. Quanto ha inciso sulla costruzione dell’immagine internazionale della città?

Ha inciso tantissimo. Armani ha dato a Milano una dimensione sobria, ma internazionale. Non solo con le sue boutiques, ma anche con lo sport: pensiamo al basket, pensiamo alle Olimpiadi Milano-Cortina che si avvicinano. Ha investito, ha creduto nella città anche quando la “Milano da bere” era tramontata. Pur essendo piacentino, ha saputo diventare un ambasciatore di Milano nel mondo.
Durante la pandemia, mise a disposizione le sue fabbriche per produrre camici e dispositivi sanitari. Che cosa ci racconta questo gesto?
Ci racconta l’uomo, prima ancora dello stilista. In un momento tragico, non pensò ai bilanci ma a come aiutare. Convertì le linee produttive per sostenere la sanità. È un dettaglio che non va dimenticato, perché dimostra coerenza tra parole e azioni. Anche nel dramma, non smise di essere elegante, ma un’eleganza che diventava solidarietà.
Che cosa perde oggi il sistema moda con la sua scomparsa?
Perde un pezzo di storia. Ci sono tanti stilisti bravi, tanti che diventeranno bravissimi, ma c’è una differenza tra “fare moda” e “aver fatto la moda”. Armani la moda l’ha costruita. Oggi resta un vuoto, un’assenza pesante, perché era un punto di riferimento anche per chi, come noi di Twinset, non opera nello stesso segmento.
Lei insiste molto sulla parola coerenza. Cosa significa concretamente per un brand come il vostro?
Significa non tradire mai la propria identità. Oggi tutti possono raccontare storie, la tecnologia permette a chiunque di apparire. Ma solo chi è coerente e mantiene le promesse riesce a essere ascoltato. Da Armani vogliamo imparare proprio questo: la capacità di restare fedeli a sé stessi, senza cedere alle mode passeggere.
Armani ha pensato con cura alla continuità della sua azienda. Quanto conta costruire strutture solide oltre la figura del leader?
Conta moltissimo. Le persone passano, i brand devono restare. Armani aveva grande rispetto per i suoi collaboratori e per l’azienda stessa, e ha preparato il terreno per un futuro solido. È un approccio lungimirante: la coerenza deve sopravvivere al fondatore. E questo vale per tutti noi che guidiamo brand importanti.
Se dovesse spiegare a un giovane designer che cos’è lo “stile Armani”, quali parole userebbe?
Eleganza, coerenza e tessuti. Le grisaglie, le lane, materiali che parlano da soli. Anche senza vedere l’etichetta, riconosci che c’è Armani dietro. Ma aggiungerei una parola fondamentale: perseveranza. Oggi per distinguersi non serve inseguire gli altri: serve restare fedeli a sé stessi. Questo è lo stile Armani, e questa è la lezione che deve arrivare ai giovani.
In conclusione, qual è il lascito più forte che Armani consegna al mondo della moda?
Un linguaggio universale fatto di sobrietà, puntualità, rispetto. Ha insegnato che si può essere rivoluzionari senza urlare, coerenti senza irrigidirsi, eleganti senza eccessi. Ecco perché, anche se oggi la moda perde una delle sue figure più carismatiche, il suo segno non scomparirà. Rimarrà, e continuerà a ispirare chiunque vorrà davvero costruire, non semplicemente fare, moda.
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