In Siria aggredito vicario dell'arcidiocesi di Homs. Al Shara detta le regole per il voto, ma deve rispondere alle nazioni straniere che sostengono il Paese
La Siria va al voto. A metà settembre dovrebbe eleggere un nuovo parlamento. Ma il Paese è troppo debole e deve tenere conto degli interessi di tutti gli stranieri che per un motivo o per l’altro hanno una loro influenza sul nuovo corso.
Anzi, spiega Valeria Giannotta, direttore scientifico dell’Osservatorio Turchia del CeSPI, da un certo punto di vista è un laboratorio che fa da punto di riferimento per tutto il Medio Oriente, al quale sono interessati tutti gli attori che hanno un ruolo nell’area. In questo senso proprio lì si fanno le prove per i nuovi equilibri che si stanno costruendo.
Ecco allora che i Paesi del Golfo finanziano i servizi necessari alla sopravvivenza del Paese, la Turchia assicura intelligence e difesa, USA e UE attendono la ricostruzione. Tutti, però, vogliono un Paese stabile e le elezioni dovrebbero essere un primo passo in questo senso, anche se i nuovi deputati saranno nominati per un terzo dall’attuale presidente e per i restanti due terzi da comitati elettorali locali. Un metodo scelto per scremare i parlamentari e garantire che aderiscano al nuovo corso.
Un terzo degli eletti sarà nominato da Al Sharaa, il resto uscirà da una serie di candidati scremati da commissioni elettorali locali. Che tipo di parlamento si prospetta?
Credo che i criteri sia stati definiti per una questione di sicurezza, che ci sia uno screening sul profilo dei candidati per tentare di garantire anche gli equilibri etnici e tra le forze politiche. Soprattutto in uno Stato che per un lungo periodo non è andato a elezioni e che comunque sappiamo essere molto frammentato. Mi immagino comunque che sia un’elezione monitorata attentamente anche dai meccanismi internazionali, se non dai grandi attori che influenzano la Siria.
A livello internazionale si chiede una transizione democratica, ma sappiamo che il Paese oggi non è in grado di assicurarla da solo. C’è bisogno di evitare chi è affiliato a gruppi o organismi pericolosi, chi può essere considerato una spia. Ancora oggi ci sono molte interferenze da parte di attori regionali. Gli israeliani hanno appena bombardato un quartiere di Damasco.
Questo orientamento risente sempre dell’influenza di attori esterni al Paese?
La situazione attuale riflette gli interessi dei grandi attori regionali e della comunità internazionale. Credo che l’obiettivo sia quello di garantire un meccanismo di pesi e contrappesi o comunque di equa rappresentanza. Nel Paese rimangono grandi sacche di tensione.
Al Sharaa ha chiesto ai Fratelli Musulmani di sciogliersi, per non alimentare divisioni: si fa garante lui delle istanze di certi movimenti?
Bisogna vedere quanto ci sia di vero in queste dichiarazioni. C’è da dire che tutti i grandi stati e i grandi attori regionali, più o meno, hanno tentato di smarcarsi dalla Fratellanza Musulmana. Lo stesso Erdogan quando si è riappacificato con l’Egitto lo ha fatto mettendo da parte i legami con questo gruppo. Nel nuovo scacchiere siriano, la Turchia è il grande player, ma ci sono anche gli Emirati Arabi, dove non tutti guardano di buon occhio ai Fratelli Musulmani. Penso che vogliano marginalizzarli pure in Siria per tutelare gli interessi di questi player.
L’entourage di Al Sharaa dice che queste non saranno delle elezioni legislative classiche, ma che apriranno a una fase di transizione. Cosa sperano che esca dalle urne?
Una Siria che almeno formalmente rappresenti tutti. A me tutto questo ricorda molto l’esperimento condotto dopo la caduta di Saddam Hussein in Iraq. Lì c’è stato un periodo di transizione gestito e manipolato dai grandi attori internazionali, in particolare gli americani.
D’altra parte la Siria non è in grado di camminare con le sue gambe, ci sono figure di spicco, ma che hanno contatti con attori regionali, sono influenzate. Ci sono ministri che hanno studiato e sono cresciuti in Turchia. Poi sono tornati e sono stati assorbiti nelle forze di governo. In fondo non è ancora passato un anno dalla caduta di Assad.
Tra gli attori internazionali che vogliono condizionare le vicende siriane ci sono anche gli USA?

Stati Uniti e di riflesso anche l’Unione Europea, abbastanza appiattita sulle posizioni americane. Si è parlato di un ulteriore alleggerimento delle sanzioni nei confronti della Siria, anche perché gli occidentali sono pronti per contribuire alla ricostruzione.
In questo momento chi mette denaro nel Paese per far funzionare i servizi sono i Paesi del Golfo, la Turchia garantisce l’intelligence interna, anche a livello militare. E poi, appunto, ci sono i programmi per la ricostruzione nei quali USA e UE sono pronti a intervenire con i loro investimenti. La solidità politica e la stabilità vanno di pari passo anche con l’interesse economico e il mantenimento dell’ordine regionale.
Cosa chiedono i soggetti esterni in termini di stabilità?
Penso che il principale interesse sia quello di marginalizzare il più possibile gruppi o esponenti affiliati agli iraniani. E ci sarà da sistemare la posizione di Israele, che vuole mantenere la sua sfera di influenza. Il Medio Oriente non si può permettere nuove sacche di tensione. In Siria ritroviamo tutti gli elementi di frizione e di competizione che caratterizzano l’intera area. Hanno interessi la Turchia, i Paesi del Golfo, USA, UE, ma anche Russia e Iran.
In questi giorni è stato aggredito e rapinato Michel Naaman, vicario generale dell’arcidiocesi di Homs: la violenza, confessionale o meno, è ancora un tratto caratterizzante del Paese?
Ci sono segnali contrastanti: da una parte in alcuni distretti ci sono sacche di violenza, dall’altra parte si registrano aperture di chiese o comunque di luoghi di culto non esattamente musulmani, ma che fanno riferimento alle minoranze cristiane o anche cattoliche.
Siamo sempre lì: all’interno del calderone, nonostante i tentativi di riguadagnare stabilità, c’è la necessità di marginalizzare gruppi violenti, terroristi. Sbaglia chi pensa che le elezioni di metà settembre risolvano gran parte di questi problemi: siamo in un periodo di transizione in cui probabilmente andremo incontro ancora a nuovi episodi di violenza e malcontento, rispetto ai quali bisognerà giocare di buon senso e realpolitik.
Al di là delle prospettive politiche il Paese in che situazione è adesso?
È un Paese ancora frammentato. L’ultimo rapporto della Banca Mondiale parla di grossi problemi nella distribuzione dell’energia elettrica, in alcuni posti non c’è acqua, quindi neanche il riscaldamento. La parte della Siria che sta meglio, oltre a Damasco, è quella dei cantoni controllati dalla Turchia, dove sono state aperte anche delle scuole.
Tuttavia ci sono zone in cui la situazione è veramente drammatica, come a Idlib e nelle aree che sono stati scenari di scontri diretti. Nel sud si respira una aria di stabilità, ma solo fino a quando Israele non bombarda. A parte la capitale, in molte parti del Paese non c’è luce o viene tolta improvvisamente, ci sono criticità relative all’acqua e grossi problemi a riprendere le attività economiche.
La Siria riuscirà ad accordarsi con Israele?
Sì, lo farà con il beneplacito della Turchia e dei Paesi del Golfo. In questo momento, però, penso che se gli israeliani non daranno segnali di moderazione a Gaza, nessuno si siederà al tavolo con loro.
(Paolo Rossetti)
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