La riforma della giustizia, con la sua modifica principale, cioè la separazione delle carriere, è pronta a tornare nel dibattito pubblico
La riforma della giustizia è l’araba fenice del dibattito politico: non solo in grado di risorgere sempre, ma di essere sempre declinata come finale e definitiva negazione di ogni intervento precedente. La farraginosità delle norme – spesso draconiana e altre volte così porosa da far scivolare fuori consistenti sacche di impunità – è una delle prime cause della scarsa fiducia demoscopica e sostanziale che gli italiani hanno nei confronti della giustizia. Insieme, va detto, alla sensazione di fondamentale refrattarietà del corpo giudicante.
Di esempi storici ce n’è quanto basta. La delegazione comunista in Costituente era contraria alla giustizia costituzionale perché la legge, a socialismo instaurato, sarebbe stata unica voce deliberativa del popolo. Sessant’anni dopo, l’ultimo indulto della storia repubblicana fu approvato nel 2006 da una maggioranza trasversale che nella successiva campagna elettorale non fece che martellare contro quello stesso provvedimento salutato con lode il giorno prima.
Appena un quinquennio prima, i princìpi del giusto processo erano stati inseriti in Costituzione, con l’apporto di partiti che nel periodo di Tangentopoli avevano invece approvato con giubilo l’interventismo giudiziario contro le componenti del fu Pentapartito.
Fino al 1989 vigeva in Italia un codice di procedura penale essenzialmente inquisitorio.
La Corte Costituzionale aveva smussato negli anni Sessanta e Settanta alcuni degli aspetti più tipici del regime corporativo, ma l’impianto era rimasto quello del 1930. Una giustizia mal governata, percepita come attore autocratico ed esageratamente geloso del proprio aspetto punitivo, avvia i peggiori guasti storici: se il conservatorismo liberale non aveva modificato adeguatamente le proprie procedure, ci avrebbe finalmente pensato il fascismo.
Questo il leit-motiv di ogni cambio della guardia (non solo sulla giustizia, in realtà; scuola e mercato del lavoro tendono a subire in Italia lo stesso trattamento… E non parliamo, per carità di patria, della legge elettorale).
La nuova procedura penale, varata alla fine degli anni Ottanta, poteva contare tra i suoi promotori due socialisti democratici di attitudine garantista: Giuliano Vassalli e Gian Domenico Pisapia.
Le premesse erano quelle di una ventata liberal-democratica nella concezione e nell’amministrazione della giustizia: interlocuzione paritetica tra accusa e difesa, superamento della pena in quanto principale limitazione di libertà, filtri giurisdizionali certi, rapidi e accurati, rispetto a provvedimenti giudiziari altrimenti lesivi di diritti fondamentali.
Senonché, il diavolo fa le pentole ma non i coperchi o, in altre parole, è sempre in agguato l’eterogenesi dei fini. Alcune delle più celebri inchieste italiane, di quelle col piglio investigativo più aspro e ultimativo, anche a danno della posizione di persone dimostratesi dopo decenni completamente innocenti, sono state condotte proprio nei primi anni di vigenza della “nuova” procedura penale.

Si può del resto considerare che il baricentro politico del disposto costituzionale in tema di magistratura non sia l’unitarietà in sé del ruolo giurisdizionale. Essa non sembra così prodromica alla separazione dei poteri, visto che quest’ultima si realizza efficacemente anche in ordinamenti che quella unitarietà non hanno.
La svolta importante del paradigma democratico-parlamentare sta piuttosto nel divieto di magistrature speciali, di cui il fascismo aveva abusato, e nel giudice naturale costituito per legge. Il fatto, cioè a dire, che io possa sapere quale è l’ufficio, in definitiva, chiamato a processarmi, giudicarmi, se del caso condannarmi.
Sulla separazione delle carriere tra giudici e pm non gira una buona stampa, e non per demerito della magistratura. A dimostrazione che il preconcetto attira più del contenuto. La si associa al programma di Propaganda 2 (P2), la loggia massonica di Licio Gelli. Il programma di Gelli, peraltro, aveva una timbrica chiara, nella quale la magistratura era solo un tassello: l’istituzionalizzazione di un sistema oligarchico. Ogni riforma anti-oligarchica è un antidoto a quel modello, non un’attuazione postuma.
Si dice, ancora, che il nostro processo rischierebbe di assomigliare così per costi e disvalori a quello americano, perché lì le magistrature sarebbero elettive e non è vero: lì sono eletti solo i giudici di alcuni uffici e, soprattutto, di alcuni Stati. Avvertenza metodologica che dovremmo osservare anche quando si parla della Germania, perché le norme organizzative delle magistrature, anche in ragione della loro natura tecnica, rientrano nelle competenze federate non statali.
Non sappiamo che piega prenderà l’attuale proposta di riforma della magistratura. I lembi del nodo fiduciario tra cittadinanza e giurisdizione non sono mai stati così lenti e lacerati, però: lo sa la classe politica, lo sa la magistratura, lo percepisce (talora persino con dolo) la stessa opinione pubblica.
La separazione tra funzione giudicante e funzione requirente può avere un significato (un grande significato!) se messa a servizio della giustizia. Se evita le corporazioni e non incoraggia le fratture, se corrisponde a civiltà ed efficacia, non a interesse o a ritorsione.
È nella formazione che si denota la mentalità e l’affidabilità del giudizio (magistrato, avvocato, parte privata, recepimento nella cronaca). Il rischio paventato di un pubblico ministero come organo di polizia può esservi, o non esservi, tanto a carriere unite quanto a carriere separate. O un atto del giudice che accoglie tale e quale una richiesta d’accusa che sposa a sua volta in pieno un’informativa di polizia è un segno di salute democratica? E che dire della sostanziale inattuazione del dovere giuridico, di cui all’articolo 358 della procedura, per cui il pubblico ministero svolge accertamenti a favore della persona sottoposta a indagine?
Ogni sistema si sceglie la forma che ha: quella attuale è stata forse voluta e perseguita. Ora che tutti la contestano, tuttavia, non mettervi mano sarebbe, sì, un errore. O meglio: una discussione che si infittisce di paletti e steccati solo per interessare sempre di meno e deludere sempre di più. Codici e vite son cose diverse: potrebbe essere la volta buona, tuttavia, per farli smettere di prendersi a pugni.
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