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Home » Economia e Finanza » FINANZA & POLITICA/ Armani “Made in Italy”? Con golden power e Nuova Mediobanca 

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FINANZA & POLITICA/ Armani “Made in Italy”? Con golden power e Nuova Mediobanca 

Stefano Bressani
Pubblicato 15 Settembre 2025
La pubblicità di Armani in via Broletto a Milano (Ansa)

La pubblicità di Armani in via Broletto a Milano (Ansa)

È lecito porsi qualche domanda dopo l'apertura del testamento di Giorgio Armani sul futuro della sua casa di moda

Il testamento di Giorgio Armani ha subito disseccato molte eulogie intinte nel Made in Italy e sollevato molte questioni. Quella etico-legale – può un imprenditore decidere in via successoria il futuro del suo gruppo? – è rilevante ma probabilmente riduttiva. Il punto di caduta resta finanziario e, da ultimo, politico.


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Lo stilista scomparso ha lasciato eredi virtuali della sua maison e delle sue attività industriali tre gruppi francesi (in alternativa o forse anche in combinazione): Lvmh, L’Oreal ed Essilor. Sono questi i candidati acquirenti designati da Armani e “raccomandati” al suo partner e ai suoi familiari, che restano destinatari patrimoniali del lascito. Questi ultimi, con buona evidenza, non vengono però investiti della missione di garantire una guida stabile ed efficace a un gruppo cui non sembrano lasciate chance di seconda vita autonoma.


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È un dato di fatto, non un giudizio. Viene comunque immediato il confronto con le successioni di Silvio Berlusconi ed Ennio Doris (due tycoon italiani di prima generazione che hanno preparato la seconda a reggere il volante dei business di famiglia); oppure di Gianni Agnelli, Leonardo Del Vecchio e Bernardo Caprotti, i cui figli o nipoti sono rimasti azionisti di riferimento di gruppi che hanno finora mantenuto una propria identità proprietaria e strategica, per buona parte anche nazionale.

I fatti – privati e apparentemente compiuti – dell’eredità Armani non sembrano d’altronde poter essere ignorati dall’Azienda-Italia: come stakeholder collettivo di molti portatori d’interesse. Questi spaziano dai dipendenti del gruppo (cuore non marginale di un vastissimo indotto) fino al Governo nazionale: la cui prima Premier donna ha voluto pubblicamente omaggiare Armani rammentando di aver giurato con indosso un suo abito.  E proprio Giorgia Meloni ha voluto nel suo Esecutivo un ministero del Made in Italy.


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Il passaggio di Armani a un big francese si profila fin d’ora come un potenziale trasferimento di “competitività”  – direbbe Mario Draghi – da un sistema-Paese a uno confinante, una media potenza industriale direttamente concorrente dell’Italia all’interno del perimetro Ue. L’operazione sarebbe quindi a saldo doppio: ciò che verrebbe perso dall’Azienda-Italia verrebbe subito e interamente guadagnato dall’Azienda-Francia. E tutto questo avverrebbe – avviene già – in un contesto politico-economico talmente palese e turbolento da non richiedere dettagliature.

Non sembra quindi fuori luogo porre una questione sintetica: il sistema-Italia può – se lo ritiene opportuno o necessario – impedire la realizzazione delle ultime volontà francesi di Armani? La risposta sembra essere affermativa. Può farlo sulle vie del mercato e su quelle della politica industriale, o su tutt’e due.

Dal capitalismo italiano può emergere un interessamento nazionale per il gruppo. E/o: il Governo può utilizzare i “golden power”, giudicando Armani strategica per gli interessi nazionali. E promuovere nel caso anche un intervento diretto dello Stato (in ipotesi anche attraverso la Cassa depositi e prestiti): come quello di Parigi in Stellantis oppure quello – in discussione – dell’amministrazione federale Usa in Nvidia.

Non sembra fuori luogo neppure rammentare che se da Bernard Arnault – patron di Lvmh – oppure dalla famiglia Bettencourt-Meyers (controllante L’Oreal) fossero giunti atti testamentari come quello di Armani – ad esempio con la pre-destinazione di parti di Lvmh allo stilista italiano –  il pur acciaccato Stato francese sarebbe intervenuto a bloccarli un istante dopo.

Sembra stimolante registrare anche la contemporaneità dell’apertura dell’eredità Armani con la conclusione dell’Opas di Mps su Mediobanca. Per due ragioni.<

La prima è la prospettiva che una nuova proprietà per quella che resta la più blasonata banca d’affari italiana possa segnarne il rilancio: oltre il progressivo letargo seguito alla scomparsa del fondatore Enrico Cuccia. Nella seconda metà del secolo scorso l’eredità Armani avrebbe avuto buone probabilità di essere gestita sui tavoli di Mediobanca: forse in anticipo sulla scomparsa dello stilista. E sempre in comunicazione con i poteri pubblici, anche nelle fasi di dissonanza.

Una seconda ragione per evocare il nome dell’istituto milanese è il fatto che il suo nuovo azionista di riferimento sarà – a offerta perfezionata – Delfin: la finanziaria degli eredi Del Vecchio, ex prima azionista di Mediobanca e da un anno socio di riferimento di Mps.  Ma Delfin è anche l’azionista di controllo relativo di EssilorLuxottica: cioè di un gruppo “nominato” da Armani. Un polo basato in Francia ma voluto da un imprenditore italiano che partendo da Milano ha riscosso un successo globale paragonabile a quello di Armani nell’immagine e molto superiore sul piano finanziario.

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Tags: giorgio armaniEnnio DorisMediobancaSilvio Berlusconi

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