Non possiamo servire a due padroni, dice il vangelo. Cristo raccoglie e compie l’unità insita nella nostra natura e la realizza. Ma c’è un percorso da fare
Nella vita di un uomo ci sono cose in grado di entrare in dialogo con le esigenze del suo cuore, e altre preoccupate di silenziarle. Ci sono rapporti che spalancano tali esigenze senza paura, e altri che distraggono da esse. Ci sono volti che riaccendono il gusto del cammino, e altri che lo deprimono. Amicizie che hanno tutte le caratteristiche di un trampolino e altre di una tomba.
Strada facendo si arriva così a dover verificare ciò che Gesù dice ai suoi discepoli nel Vangelo di questa domenica: “Nessun servitore può servire due padroni, perché o odierà l’uno e amerà l’altro, oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro. Non potete servire Dio e la ricchezza” (Lc 16, 13-14).
La sfida lanciata da Cristo non è di poco conto e parte dalla certezza dell’intima unità presente nell’uomo: “La natura dell’uomo è così unitaria, la natura della ragione è così ‘una’, che non accetta altra alternativa: o noi dipendiamo da Dio, abbiamo l’esperienza di questa dipendenza da Dio dove uno trova la sua maggiore soddisfazione o, volenti o nolenti, con tutti i gesti che facciamo, in fondo, dipendiamo da tutto, siamo schiavi di tutto: nel modo con cui ci rapportiamo al lavoro, come gestiamo i soldi, come usiamo il tempo libero, tutto. Per questo dico che è difficile trovare uomini liberi, che è lo stesso che dire trovare uomini veramente religiosi, per i quali Dio non sia soltanto un sentimento, un ornamento, ma un’esperienza in cui la dipendenza è l’espressione più profonda dell’io, che lì raggiunge la sua maggiore soddisfazione. Lo sottolinea san Tommaso: ‘La vita dell’uomo consiste nell’affetto che principalmente lo sostiene e nel quale trova la sua più grande soddisfazione’ (San Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, II, IIae, q. 179, art. 1). Se non c’è un rapporto che ci dà questa soddisfazione, non possiamo poggiare tutta la vita su questo affetto e allora dipendiamo da tutto il resto. Per questo tante volte il nostro criterio non è la dipendenza, ma la riuscita, che è il criterio del divo, cioè dell’uomo non religioso” (Julián Carrón, Un incontro per entrare nel reale, Fiera di Rho, 29 settembre 2007).
In tante occasioni del vivere possiamo riconoscere in noi questa dinamica capace di gettare un velo di sospetto persino sulle cose più belle, permettendo che la performance si insinui come misura nostra e degli altri. Poi arriva il giorno in cui ci accorgiamo di non poter “servire due padroni”. In un istante il primo amore si riprende tutta la scena, ridestando in noi una mancanza di cui non finiremo mai di ringraziare, stupiti.
È un istante che, per riaccadere, talvolta si serve dei dettagli più strani della realtà, quelli a cui nessuno baderebbe, come per esempio il nostro temperamento. Siamo fatti in un certo modo, ci accendiamo per certe cose, siamo disinteressati ad altre, portiamo nella nostra carne le tracce di come il primo amore ha deciso di fare breccia nella nostra vita. E siamo talmente segnati da questa iniziativa che, prima o poi, non accetteremo più “due padroni”.
Qualcuno potrebbe impiegare persino tutta la vita per ammetterlo a se stesso, per questo conviene sempre godersi il cammino della scoperta, in attesa di gustare il panorama. La meta stessa, infatti, è già presente in ogni passo che facciamo, perché è stata anzitutto Lei a raggiungere noi, che non siamo pensati per essere schiavi, ma liberi, e anche se è vero che “i figli di questo mondo verso i loro pari sono più scaltri dei figli della luce” (Lc 16, 8), dobbiamo riconoscere che la Luce non è mai rimasta senza figli. Siamo fra questi, ma rimasti liberi?
— — — —
Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.
