Domani comincia la lunga tornata elettorale delle elezioni regionali. Occhi puntati su Pd e M5s. Un'analisi della formazione di Conte
Un test politico di grande rilevanza si aprirà domani, quando inizierà con le elezioni regionali nelle Marche e in Valle d’Aosta una lunga consultazione elettorale che vedrà andare al voto, da qui a novembre, sette regioni italiane (Valle d’Aosta, Marche, Calabria, Toscana, Campania, Veneto e Puglia).
Secondo il sondaggista e sociologo Arnaldo Ferrari Nasi, direttore di Analisi Politica, si tratta di un passaggio che potrebbe ridisegnare gli equilibri nazionali. Ad attirare l’attenzione dell’analista è il Movimento 5 Stelle: “Oggi due terzi dei suoi elettori lo percepiscono come una forza autonoma, né di destra né di sinistra. È una trasformazione radicale rispetto a due anni fa”, spiega Nasi. Una fotografia che non solo rimette in discussione il rapporto con il Pd, ma evidenzia anche un bacino trasversale che abbraccia centro e persino centrodestra.
E c’è un rischio concreto: se Beppe Grillo tornasse in campo con un suo movimento, il M5s potrebbe scendere sotto la soglia psicologica del 10%, aprendo una crisi che cambierebbe lo scenario politico nazionale.
Partiamo dal dato più inatteso: due terzi degli elettori M5s oggi vedono il movimento come forza indipendente. Cosa significa?
È semplice: nel 2023 la maggioranza relativa degli elettori collocava il Movimento 5 Stelle dentro il centrosinistra. Oggi, dopo quella che io chiamo la “cura Conte”, il 67% considera i 5 Stelle indipendenti, né di destra né di sinistra.
Quindi?
In un certo senso, è un ritorno alle origini: il Movimento nasceva come contenitore dei rancorosi, dei delusi, di chi non voleva più votare i partiti tradizionali. Ora quella vocazione sembra riaffiorare.
In altre parole, secondo lei, il M5s non è più percepito come stampella del Pd?
Esattamente. I numeri dicono che il legame col Pd non è più così saldo agli occhi del suo stesso elettorato. Poi, nei fatti, il M5s non può presentarsi da solo perché non avrebbe la forza per governare. E il centrosinistra non può farne a meno: dunque l’alleanza resta necessaria. Ma la percezione è cambiata, e questo ha un peso enorme.
Eppure si sente dire che il M5s è ormai un partito “di sinistra”. Come si concilia questa narrazione con i suoi dati?
Qui arriva il dato davvero controcorrente. Se guardiamo all’auto-collocazione politica, scopriamo che tra gli elettori M5s il 29% si definisce di centro e circa il 10% addirittura di centrodestra o destra. Non è un errore statistico: è la fotografia di un elettorato variegato. Nel Pd non succede, lì tutti si collocano tra centrosinistra e sinistra. Nel M5S no: rimane quell’anima trasversale che lo rende unico.
Cosa intende dire con “anima trasversale”?
Che il M5s è l’unico partito italiano che ancora oggi può pescare voti fuori dallo schema classico destra-sinistra. Sulla base di un sondaggio di qualche settimana fa, se Lega o FdI sparissero, il 15% dei loro elettori non andrebbe a Forza Italia o all’astensione, ma al M5s. Questo legame con pezzi di centrodestra delusi è ancora vivo, seppur ridotto.
Dunque, paradossalmente, il M5s ha più affinità potenziali con elettori di centrodestra che con il Pd?

Non direi affinità, ma possibilità di attrarre voti sì. Ed è un dato che il Pd non può vantare. Il Pd prende da sinistra e centrosinistra, punto. Il M5s invece può intercettare scontenti da entrambi i lati. Questa è la sua forza ma anche il suo limite, perché lo rende meno collocabile in un’alleanza stabile.
A proposito di limiti. Sappiamo che lei ha testato l’ipotesi di un suo ritorno con un nuovo movimento. Che cosa è emerso?
È un’ipotesi del tutto teorica, ma significativa. Circa il 3% degli elettori lo prenderebbe “molto” in considerazione, e un altro 16% “abbastanza”. Tradotto: se anche solo una parte di questi si spostasse, il M5s rischierebbe di scendere dal 13-14% attuale sotto la soglia psicologica del 10%. Ed è un passaggio pericoloso, perché in politica esiste l’“effetto bandwagon”: quando un partito appare in calo, gli elettori tendono ad abbandonarlo ancora di più.
In altre parole, se Grillo si ripresentasse il M5s entrerebbe in crisi?
Potrebbe accadere, sì. Non dico che Grillo rifonderà davvero un partito, ma il solo parlarne evidenzia una fragilità strutturale: il Movimento non ha mai reciso del tutto il cordone con il suo fondatore. E questo lo rende vulnerabile.
Guardiamo ora al quadro generale: domani inizia una tornata elettorale che riguarda un terzo delle regioni italiane. Quale valore ha questo test?
È un termometro politico fondamentale. Non parliamo solo di chi governerà le singole regioni, ma di segnali nazionali. Se il centrosinistra riuscisse a strappare sei regioni su sette, come qualcuno auspica, sarebbe un colpo durissimo per il centrodestra. Al contrario, se il centrodestra tenesse, rafforzerebbe la sua posizione a livello nazionale.
Recenti sondaggi mostrano che la somma del consenso riscosso dalle forze del campo largo potrebbe impensierire il centrodestra a livello nazionale. Cosa pensa in merito?
Ho molto dubbi ed è il caso di Prodi nel 2006 a ricordarcelo. Quell’esperienza dimostra che vincere non basta. Prodi riuscì a mettere insieme Turigliatto e Mastella, due mondi opposti. Vinse, ma non governò. Anche oggi vale lo stesso: il centrosinistra può anche prevalere, ma resta fragile per la difficoltà di tenere insieme culture e sensibilità diverse. Il centrodestra, invece, ha valori fondanti più omogenei che gli danno maggiore stabilità.
Quindi alle regionali non si deciderà solo il destino di sette regioni, ma l’assetto del Paese?
Esattamente. I risultati regionali sono locali solo sulla carta. In realtà condizionano fiducia, leadership, strategie nazionali. Ed è per questo che, domenica, avremo un vero banco di prova per tutti: per il governo e per l’opposizione.
(Max Ferrario)
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