Ciò che accade a Gaza e in piazza deve interrogare chi fa scuola e vive a contatto con gli studenti. I giovani non hanno bisogno di schierarsi ma di capire
In questi mesi le nostre coscienze sono profondamente turbate dalle immagini e dalle notizie che giungono da Gaza. In queste ore siamo poi tutti in attesa che iniziali spiragli di dialogo possano diventare un accordo e rappresentare un passo significativo verso la pace.
Molte sono le iniziative e le prese di posizioni in Italia e nel mondo, animate da un desiderio comune di non rimanere indifferenti di fronte alla storia, di provare a dare il proprio contributo alla pace, di non sentirsi accusare – in primis dalla propria coscienza – di essersi voltati dall’altra parte.
A volte si ha l’impressione che alcune espressioni di questo sentimento non sfuggano però ad un a logica di contrapposizione, con visioni unilaterali che non di rado rischiano di replicare e di amplificare lo stesso clima di dura contrapposizione della guerra.
I moniti lanciati nei giorni scorsi da Leone XIV e dal patriarca di Gerusalemme, cardinale Pizzaballa, richiamano tutti a guardare la situazione con una logica diversa. “Non c’è futuro basato sulla violenza, sull’esilio forzato, sulla vendetta. I popoli hanno bisogno di pace: chi li ama veramente, lavora per la pace”, ha detto il Papa nell’Angelus del 21 settembre.
“Abbiamo lasciato il campo a estremisti, dall’una e dall’altra parte” – ha affermato Pizzaballa il giorno successivo. “Però, vedo anche tanti miti. Vedo tante persone che si mettono in gioco, che amano la giustizia, che fanno giustizia pagando anche un prezzo personale in questo senso. Certo, questo tempo sembra essere il momento della violenza, del dolore e della forza; ma i miti, che per loro natura non fanno chiasso, ci sono. Ecco, noi vogliamo appartenere ai miti e assieme a loro, a tutti i miti di tutte le appartenenze possibili, creare quel tessuto sul quale, poco alla volta, poi si potrà ricostruire il futuro”.
Questa posizione ci interroga.
Nel dialogo tra alcuni insegnanti di Diesse ci siamo chiesti, di fronte alle manifestazioni di protesta, agli scioperi e all’annuncio delle occupazioni nelle scuole anche a seguito della vicenda della Flotilla: sono risposte davvero adeguate da parte di chi ha una responsabilità educativa nei confronti dei giovani? è davvero quello di cui i ragazzi hanno bisogno? come tutto questo interroga nello specifico gli insegnanti?

Compito di chi educa non è spingere i ragazzi a schierarsi, magari sull’onda di emozioni o sotto l’influsso di posizioni ideologiche o preconcette, è piuttosto accompagnarli a conoscere quanto più possibile la realtà della storia, a immedesimarsi con la vita dei popoli, insomma a trasmettere il desiderio della ricerca della verità e della giustizia: i veri educatori sentono cioè l’urgenza di offrire criteri con cui i ragazzi possano liberamente e consapevolmente prendere la propria posizione di fronte alla realtà.
E questo può accadere, nelle scuole, in tanti modi: aiutando i ragazzi ad aprire gli occhi sulla complessità delle cose; a cercar di capire le situazioni anche in una prospettiva storica, per immedesimarsi nelle ragioni dell’altro; a usare consapevolmente le parole, che sappiamo essere capaci di ferire o di gettare ponti; a comprendere tutta la profondità degli ideali-chiave della nostra cultura – verità, giustizia, amore, pace, accoglienza, solidarietà, persino perdono – affinché i giovani possano riconoscerli non come delle parole-slogan, ma come criteri capaci di esprimere la profondità del cuore umano, e che proprio per questo possono essere riscoperti e sentiti come parole vere e importanti per il proprio presente.
In questo senso è interessante segnalare la mostra Profezie per la pace, realizzata da studenti ed insegnanti e presentata all’ultimo Meeting di Rimini, che peraltro è possibile utilizzare per un dialogo nelle scuole, perché aiuta a conoscere esperienze concrete di pace vissuta all’interno di contesti di guerra in diverse parti del mondo.
Questo percorso di conoscenza e di consapevolezza è il contributo che la scuola può dare: attraverso l’insegnamento delle proprie materie e con il proprio modo di essere, ciascun insegnante può contribuire a costruire una cultura della pace, sin da ora, sin dai rapporti più elementari, perché spesso – come ci dicono tanti fatti di cronaca – l’origine della violenza si annida anche nelle pieghe del nostro quotidiano.
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