In Francia Lecornu ha lasciato l’incarico: non ci sono le condizioni per guidare il governo. La crisi è l’epilogo della strategia “ribaltonista” di Macron
Nell’ennesimo ribaltone di Emmanuel Macron – forse l’ultimo, dopo le clamorose dimissioni del premier designato Sebastien Lecornu – è possibile rivedere entrambi i ribaltoni italiani del decennio scorso. Peraltro riusciti ambedue, grazie anche all’intervento di due Presidenti della Repubblica, che tuttavia a Roma non avevano i poteri costituzionali dell’Eliseo.
Nel 2011 il premier Silvio Berlusconi – in carica da tre anni dopo una netta vittoria elettorale – fu rimosso dallo spread. L’agente del ribaltone fu il presidente “dem” Giorgio Napolitano, che installò un governo tecnico – presieduto dall’ex commissario Ue Mario Monti – con l’incarico di attuare l’austerity imposta dalla Bce (dal presidente uscente, il francese Jean Claude Trichet, e da quello designato, l’italiano Mario Draghi). Entro fine anno fu varata una manovra “salva Italia” da 30 miliardi (equivalente a più di 40 oggi) imperniata su una dura riforma delle pensioni.
La Francia odierna è di fronte allo stesso muro: il premier François Bayrou è stato sfiduciato un mese fa dall’Assemblea nazionale per aver presentato una manovra da 44 miliardi, compresa una riforma previdenziale finora in vigore per decreto. Già a fine 2024 il predecessore Michel Barnier – ex commissario Ue – ne avrebbe voluta una da 65 miliardi per iniziare a correggere il deficit pubblico francese, ormai quasi doppio del parametro Ue standard del 3% del Pil (l’Italia è impegnata a rientrarvi già nel 2026).
Nel frattempo anche il debito pubblico francese si è pericolosamente gonfiato: era a quota 97% sul Pil quando Macron è stato eletto nel 2017; oggi è a 113% e in termini assoluti (3.450 miliardi) è superiore a quello italiano.

Lo spread francese non è per ora decollato come quello italiano nel 2011, anche se non è noto se la Bce a guida Christine Lagarde abbia già iniziato azioni di sostegno. Certamente nessuna grande istituzione finanziaria euramericana ha preso a speculare al ribasso sugli Oat, magari in collateralismo politico, come avvenne contro i BTp. Invece è arrivato un declassamento del rating sovrano francese (Fitch) benché non allarmistico e ad apparente orologeria come quello di Moody’s nel giugno 2011.
Era comunque questo il dossier – sempre più incandescente – finito nelle ultime settimane sulla scrivania di Lecornu. Che però non era un tecnocrate istituzionale in un sistema parlamentare come Monti, come non lo erano né Barnier né Bayrou.
Il premier designato era un ex ministro del presidente di una Repubblica semipresidenzialista, il quale “presiede” l’esecutivo e non è una figura di garanzia ma viene legittimato dal suffragio popolare. E Macron da un anno sta facendo i conti con le dure débâcle elettorali del giugno 2024 (in parte da lui stesso volute, con l’improvvisa chiamata del rinnovo anticipato dell’Assemblea legislativa).
Da allora l’Eliseo ha sempre rifiutato di affrontare una crisi-Paese in pesante aggravamento: sul piano economico-finanziario, ma prima ancora sociale e politico, fors’anche istituzionale. Ancora domenica sera il presidente è sembrato assillato principalmente di imporre al premier – e agli alleati gollisti – due suoi fedelissimi: Roland Lescure alle Finanze (cruciale per la manovra) e Bruno Le Maire alla Difesa (cruciale per le smanie “volenterose” di riarmo del presidente).
Macron si è mostrato motivato da una preoccupazione fissa: mantenere il potere fino alla scadenza del suo mandato (primavera 2027), anche ignorando gli interessi urgenti del Paese. Impedire ad ogni costo che quel potere vada ad altre forze politiche, anche quando queste registrano affermazioni elettorali sempre più nette, mentre il “campo presidenziale” è sempre più minoritario.
Il Rassemblement National l’anno scorso ha stravinto il voto europeo proporzionale; e il Nouveau Front Populaire – a sinistra – è stato la prima forza alle legislative e avrebbe potuto essere maggioritario in assenza del doppio turno e degli affannati accordi di desistenza accettati con il campo macroniano in nome della “resistenza” all’avanzata lepenista.
È questo passaggio che richiama in modo singolare il ribaltone italiano del 2019: quando l’azione non notarile del Quirinale assecondò – come minimo – la caduta del governo Conte 1. Questo avvenne dopo che il voto europeo aveva invertito i pesi nella maggioranza fra Lega e M5s, i due vincitori del voto politico dell’anno precedente.
Il Conte 2 – un esecutivo guidato da un premier trasformista e mai eletto in Parlamento – si sostanziò essenzialmente nel ritorno forzato al potere del Pd: il partito dello stesso Sergio Mattarella e prima ancora di Napolitano. Un partito sconfitto al voto nel 2008 ma rientrato nelle stanze dei bottoni con il ribaltone 2011. Un partito che non aveva riportato una vittoria effettiva neppure alle politiche 2013, eppure guidò poi il governo per un’intera legislatura con tre premier diversi (Matteo Renzi era un non parlamentare e furono sempre decisivi i senatori “prestati” al centrosinistra da Forza Italia).
Il partito che, infine, stra-battuto nel 2018, rientrò l’anno dopo nel “governo Ursula” (occupando poltrone strategiche come il Mef) e rimase anche nell’esecutivo semi-tecnico di Mario Draghi. Prima di riportare l’ennesima sconfitta nel 2022 e poi alle europee del 2024 (fino al “referendum Cgil” dello scorso giugno e alle regionali nelle Marche e in Calabria negli ultimi nove giorni).
Forse non è stato per caso che – durante l’esecutivo Draghi – il Quirinale abbia voluto stringere un “trattato d’amicizia” con l’Eliseo di Macron. Il quale – al primo turno proporzionale delle presidenziali francesi del 2022 – non riportò molti più voti di quelli guadagnati pochi mesi dopo da Giorgia Meloni alle politiche italiane. Ma tre anni dopo i partner di maggioranza in Italia sono ancora coesi, mentre Macron sembra ormai solo all’Eliseo. E attorno al suo bunker napoleonico, intanto, Parigi brucia.
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