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Home » Cinema e Tv » Film e Cinema » ROMA CITTÀ APERTA/ La nuova idea di cinema nata in Italia 80 anni fa

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ROMA CITTÀ APERTA/ La nuova idea di cinema nata in Italia 80 anni fa

Massimo Bordoni
Pubblicato 8 Ottobre 2025
Una scena del film

Una scena del film

Sono passati 80 anni dall'uscita nei cinema di "Roma città aperta", film che si può considerare iniziatore del neorealismo

A ottant’anni dalla sua presentazione nelle sale italiane parliamo oggi di un film che rappresenta un’autentica pietra miliare della storia del cinema: Roma città aperta di Roberto Rossellini.

Un’intera biblioteca di testi critici, storici, divulgativi e biografici è già stata scritta nei passati decenni sul film che più di tutti caratterizza, assieme a Ladri di biciclette (1948) di Vittorio De Sica, la breve quanto fondamentale stagione del neorealismo italiano. Formati da questa ampia collezione di letteratura storico-critica, cerchiamo oggi di sintetizzare le peculiari ragioni che rendono il film scommessa di Rossellini così importante.


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Il neorealismo, nato di getto e teorizzato – parzialmente – solo a posteriori, rappresenta il primo momento storico in cui il cinema rielabora la forma narrativa classica, trasformandola in qualcosa di più adatto all’urgenza di mostrare cose nuove allo spettatore, di mettere in campo un media più espressivo e sincero, meglio adatto a narrare il disordine del mondo post-bellico. Uno sconvolgimento visivo che ha ispirato tantissimi autori nei decenni successivi.


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Sono molti infatti i registi e gli autori, di Paesi e culture cinematografiche diversissime, che hanno ravvisato nel neorealismo italiano un paradigma di stile e contenuto, con il quale si sono misurati per realizzare il proprio percorso artistico. Dagli americani di Hollywood Scorsese e Spielberg; ai maestri del realismo magico dell’America latina, come il brasiliano Glauber Rocha; ai registi del nuovo cinema arabo contemporaneo, come Abbas Kiarostami; agli indiani Satyajit Ray – negli anni Cinquanta . e successivamente Mira Nair; al greco Angelopoulos, con il suo cinema della memoria; al britannico Ken Loach, fautore del docu-drama; fino ai pionieri del nuovo cinema africano.


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Tutti concordi nel ritenere il neorealismo italiano un momento di svolta significativo e ispiratore, anche se molto discordi sulle ragioni della sua importanza. Ci fu anche chi si spinse a sostenere che “la storia del cinema si divide in due ere: una prima e una dopo Roma città aperta“. Comunque, tutti gli autori citati colgono e fanno propria la principale caratteristica del neorealismo: quella di essere un cinema che non pretende di spiegare tutto, raccontando con la perfezione preordinata della forma classica, ma che semplicemente osserva la realtà, la guarda senza filtri ideologici o stilistici. La inquadra con curiosità e rispetto, la coglie nel suo farsi dinamico, tragico o grottesco.

Una scena del film

Come disse con felice sintesi il celebre critico francese Bazin, teorico della nouvelle vague, Rossellini “non dimostra, mostra”. E allora Roma città aperta è, semplicemente, il film che più di tutti incarna questa nuova idea di cinema. L’iniziatore del percorso storico del neorealismo.

Realizzato appena dopo la liberazione alleata dall’occupazione nazista, tra molte difficoltà e intoppi di vario genere, esso racconta alcune storie di fine della guerra nella Città Eterna, in parte ispirate a fatti realmente accaduti. C’è la lotta partigiana, le torture degli aguzzini nazi-fascisti, l’uccisione di una giovane donna (Anna Magnani) falciata dietro al camion che deporta il marito, la fucilazione di un sacerdote (Aldo Fabrizi) che protegge e aiuta i partigiani, la perfidia degli ufficiali della Gestapo.

Il tutto guardato con uno stile incerto e a tratti affannoso, che riflette il caos e la paura che la guerra infonde negli animi, secondo un’immediatezza che è la grande novità di questo inedito tipo di cinema. Un cinema che guarda la realtà e pone domande, lasciando che lo spettatore trovi da sé le risposte in ciò che vede.

Accolto dalla critica italiana con sufficienza (scambiato per un melodramma di taglio popolare), il film di Rossellini ebbe immediato e notevole successo all’estero, soprattutto in Francia, dove vinse la Palma d’Oro al Festival di Cannes del 1946. L’impatto fu grande anche negli Stati Unti, dove ricevette una inattesa nomination all’Oscar per la migliore sceneggiatura originale, firmata dallo stesso Rossellini in collaborazione con Sergio Amidei e un giovane Federico Fellini.

A distanza di vari decenni, e nonostante la celebrità iconografica delle sue immagini riproposte tante volte in tv, ancora commuovono con sincerità e disincanto le due sequenze principali: quella della Magnani falciata dalla mitragliatrice mentre rincorre il camion su cui viene deportato il marito tipografo, e quella della fucilazione di don Pietro (Fabrizi) di fronte ai ragazzi della sua parrocchia. E proprio quest’ultima ricorda il tragico finale della vicenda vera di don Luigi Morosini, la cui rielaborazione drammatica costituisce il nucleo narrativo da cui prende vita tutto il film.

Da rimarcare anche la notevole prova attoriale sia di Aldo Fabrizi che, soprattutto, di Anna Magnani, all’epoca compagna del regista. La sua rincorsa al camion nazista, il suo urlo “Francesco” rivolto al marito, la sua morte, l’accorrere di don Pietro con il suo estremo abbraccio disperato, compongono la scena rimasta per lunghi anni l’icona inconfondibile di tutto il cinema italiano all’estero. Mirabile esempio di come questo nuovo cinema, definito neorealista a posteriori, ha reinventato per sempre il modo di filmare la realtà.

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Tags: Federico FelliniVittorio De SicaAldo Fabrizi

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