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Home » Politica » POST-IT/ Quirinale e Privacy nella crisi (globale) delle istituzioni di garanzia

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POST-IT/ Quirinale e Privacy nella crisi (globale) delle istituzioni di garanzia

Nicola Berti
Pubblicato 24 Novembre 2025
Palazzo del Quirinale visto dal Palazzo della Consulta, sede della Corte Costituzionale, Roma, 29 Gennaio 2024. ANSA/GIUSEPPE LAMI

Palazzo del Quirinale visto dal Palazzo della Consulta, sede della Corte Costituzionale, Roma, 29 Gennaio 2024. ANSA/GIUSEPPE LAMI

Nei giorni scorsi al centro della cronaca politica sono finite due istituzioni importanti: Quirinale e Garante della Privacy

Presidenza della Repubblica e Garante della Privacy – negli ultimi giorni al centro della cronaca politica – sono due istituzioni di alta garanzia nella democrazia italiana. Certamente unico e massimo, nell’architettura costituzionale, è lo status del Quirinale, che include il potere di sciogliere le Camere e di incaricare il Premier, la vigilanza ultima sulla magistratura e il comando delle Forze armate. La figura del capo dello Stato pensata dai costituenti era chiamata principalmente a negare tutto quanto di autoritario aveva contraddistinto l’Italia monarchica, infine fascista.


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La Carta parlamentarista tuttora in vigore dal 1948 disegna per questo un Presidente super partes, destinato essenzialmente a garantire, non a condizionare la contesa politica o a esercitare poteri propri: come del resto il Presidente della Germania post-nazista.

L’Autorità garante della protezione dei dati personali si trova – nell’alto organigramma istituzionale – sulla stessa prima linea di Consob, Antitrust, Comunicazioni, Energia, Trasporti, Scioperi, Anti-corruzione, Fondi pensione. Sono 13 le authority indipendenti via via istituite (senza dimenticare la Banca d’Italia, titolare dell’Ivass) in una concezione evolutiva dei controlli istituzionali della legalità democratica nella Repubblica.


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Le Camere che hanno eletto per due volte Sergio Mattarella al Quirinale sono le stesse che hanno designato i 4 membri del collegio della Privacy (o i membri della Commissione di garanzia sul scioperi, freschi dall’aver dichiarato illegittimo, in ottobre, uno sciopero generale dichiarato dalla Cgil).

La settimana scorsa Quirinale e Privacy si sono ritrovati sotto i riflettori politico-mediatici per eventi distinti, anche se in parte collegati. L’indipendenza della Presidenza è stata messa in discussione da uno scoop giornalistico de La Verità su commenti di tenore politico partizan (raccolti in un ambito privato, ancorché non smentiti dall’interessato) rilasciati dal consigliere Francesco Saverio Garofani, segretario generale del Consiglio supremo di difesa.


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Di Garofani – ex parlamentare Pd e primo non militare a ricoprire il ruolo al Csd – molte voci continuano a chiedere le dimissioni, non solo dalla maggioranza. Certamente – a quanto è lecito intendere – la Premier Giorgia Meloni non considera chiuso l’incidente-Garofani in assenza dell’uscita di scena del consigliere, giudicato ormai privo dei requisiti di indipendenza richiesti dal ruolo.

Una exit di compromesso – di minor impatto nelle relazioni fra Quirinale e palazzo Chigi – sembra poter essere lo spostamento di Garofani ad altro incarico al Quirinale: con il presumibile ripristino della prassi di un alto grado militare al Csd. Questa sembra essere d’altronde un nodo strutturale nel caso Garofani. Mattarella ha presumibilmente imposto l’ex deputato cattodem all’inizio della guerra russo-ucraina già prevedendo che nell’arco di pochi mesi al ministero della Difesa si sarebbe seduto un esponente di Fdi, rendendo quindi meno maneggevole la gestione di un organismo che rientra nella sfera di potere del Quirinale.

L’indipendenza della Privacy è stata invece oggetto di polemica politica ultima per le dimissioni improvvise del neo-segretario generale. Angelo Fanizza (un ex magistrato amministrativo) avrebbe avviato un’indagine interna all’autorità – a quanto si è letto a sospetto di violazione della privacy dei dipendenti – per verificare l’esistenza di eventuali “talpe” che avrebbero a loro volta violato la privacy di un membro dell’authority stessa.

L’insegna del Garante per la privacy (Ansa)

Il sospetto specifico era che Report, programma giornalistico della Rai, fosse stato “leakato” in anticipo dall’interno dell’Autorità su un incontro fra il commissario Agostino Ghiglia (ex parlamentare Fdi) e Arianna Meloni: capo della segreteria politica di Fdi e sorella della Premier. Lo scoop giornalistico di Report non si è quindi presentato in termini così diversi – nello stile e nel contenuto – da quello che pochi giorni dopo ha avuto per protagonista Garofani. Ed era stato preceduto, sempre su Report, da uno scoop analogo che era stato l’innesco del successivo.

Report ha preso ad attaccare in via frontale la Privacy sul caso Ghiglia all’inizio di novembre, in due trasmissioni Rai (emittente di servizio pubblico, investita a sua volta da un dettato di indipendenza, correttezza e imparzialità su un piano di costituzione materiale). Ma l’alzata di tiro da parte del programma di Sigfrido Ranucci – che ha ignorato fra l’altro una diffida giunta dalla stessa Privacy – era apertamente collegata a una sanzione irrogata dal Garante e Report: per aver mandato in onda sulla Rai una conversazione telefonica privata fra l’ex ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano e la moglie.

A partire da quella decisione sanzionatoria, nell’ultimo mese sono state incessanti, da parte dell’opposizione, le richieste di dimissioni per l’intero collegio dell’Autorità: puntualmente respinte (anche dopo lo scoop su Ghiglia). Giovedì sera sono invece giunte all’improvviso quelle del neo-segretario generale: a riaccendere le polemiche sull’indipendenza del Garante.

Ranucci, nelle ultime ore, ha insistito nell’attacco alla Privacy: ha anticipato fin da sabato la pubblicazione nella puntata di Report di ieri sera di un audio captato in un incontro fra il collegio del Garante e i dipendenti, attorno al caso Fanizza. L’obiettivo appare evidente: continuare la pressione sul Garante perché tutti i suoi membri si dimettano.

Ne risulta così accreditato – almeno in via oggettiva – uno scenario di simmetria con il caso Garofani. Con un teorema implicito, ancorché leggibile: se i membri del Garante non si dimettono (anche perché le forze politiche della maggioranza lo difendono), neppure Garofani ha il dovere di farlo (e neppure Sergio Mattarella ha il dovere di spingerlo). Oppure: in caso di dimissioni “simmetriche”, l’incidente verrebbe politicamente chiuso “in pareggio” fra Meloni e Mattarella. Entrambe le prospettive paiono meritare da subito qualche nota a margine.

La Rai – a differenza de La Verità– è di proprietà statale e concessionaria di servizio pubblico. Report ha cominciato per primo a giocare “borderline” con le intercettazioni private contro un componente del Governo di centrodestra. La multa di 150mila euro inflitta dalla Privacy a Report è stata un atto legittimo eventualmente appellabile in via giudiziaria. E non appare paragonabile al peso della partecipazione “insindacabile” di Garofani al Csd di lunedì scorso: un evento formalmente istituzionale ma non privo di seri risvolti politici, laddove il Quirinale ha con molta evidenza voluto far risuonare la sua voce – verbalizzata da Garofani – in giorni decisivi per la crisi russo-ucraina.

Sulla quale la competenza esclusiva è del Governo che ne risponde solo al Parlamento. E tutto questo alla vigilia di un’importante domenica elettorale nel Paese (nel sabato di silenzio elettorale, fra l’altro, Mattarella non ha mancato di visitare il Veneto, pronto al voto regionale; lo ha fatto in occasione di un evento di un’organizzazione umanitaria, fra i cui riflessi mediatici non sono mancate critiche ai “tagli di Trump negli aiuti ai Paesi poveri”).

Il caso italiano non è certo l’unico e forse neppure il più importante sull’orizzonte globale di una crisi progressiva delle istituzioni di garanzia, di ogni genere. Basti pensare al ruolo delle corti supreme, sulla cruciale interfaccia istituzionale fra potere politico e giudiziario. Nel Global South ormai emerso, quella brasiliana ha deciso un arresto molto politico per l’ex Presidente Jair Bolsonaro. Ma il caso più eclatante continua a riguardare l’alta corte per antonomasia: quella nata a Washington nel 1789.

Non solo negli Usa, ma nell’intero Occidente liberaldemocratico le corti supreme rappresentano da tempo la vera istanza ultima “illuminata” della funzione di garanzia della legalità, in ogni campo: politico, economico, sociale. Ma proprio negli Stati Uniti già durante il primo mandato di Donald Trump “Scotus” è finita su una griglia critica senza precedenti: quando il gioco dei rinnovi fra i nove justice a vita – avvenuto peraltro entro i limiti rigorosi di regole consolidate – ha spostato l’equilibrio nel collegio a favore della componente conservatrice.

Non è stato difficile, tuttavia, da parte di un vasto fronte politico-culturale, controbattere che la stessa “Scotus” era stata in precedenza condizionata per decenni da maggioranze di giudici progressisti, vicini all’ala liberal dei dem: sull’onda lunga di un sommovimento di lungo periodo sfociato via via nella Politically Correctness e infine nel Wokism. Oggi in declino.

Resta in ogni caso prerogativa del Congresso emendare la fisionomia normativa della Corte Suprema: in una cornice costituzionale che non è mai stata scolpita nella pietra neppure Oltreatlantico. Non può essere escluso neppure che in un futuro non lontano venga ridiscusso il limite di due mandati per il Presidente (stabilito dopo che Franklin Delano Roosevelt aveva guidato gli Usa per quattro mandati, sullo sfondo di una guerra mondiale ritenuto eccezionale e irripetibile). Oppure che venga rivisto il divieto di candidatura alla Casa Bianca vigente per cittadini americani che non siano nati negli Usa (è il caso, ad esempio, del nuovo sindaco “dem” di New York, Zohran Mamdani).

Se in Germania la Corte costituzionale si è ritrovata competente su uno snodo cruciale squisitamente politico – l’imperativo stretto di equilibrio e stabilità per le finanze pubbliche, oggi in parte superato – in Italia la Corte costituzionale è stata nel frattempo sfiorata da crescenti interrogativi, talora polemici, di natura istituzionale: per la sua oggettiva dipendenza – nella sua periodica ricomposizione secondo le prescrizioni della Carta in vigore – dal presidente della Repubblica in carica e dal corpo giudiziario.

Il ruolo di entrambi è attualmente messo in discussione da due progetti di riforma avviati dal Governo, su magistratura e premierato. Ancora una volta risuonano le denunce di “attacco alla democrazia”, contrate da quelle di resistenza su posizioni di potere abusivo o per obsolescenza delle norme costituzionali o per eccessi maturati nell’esercizio.

Il catalogo delle situazioni critiche significative appare in ogni caso sempre più vasto e disparato. E pare denotare la crisi di un modello al fondo illuminista ed élitario: quelli in cui pochi “optimates” – saggi probiviri formalmente indipendenti da tutti e tutto e autocooptati- hanno l’ultima parola su realtà perennemente turbolente e conflittuali.

L’Onu – forum internazionale fondato nel 1945, nel quale siedono 193 stati sovrani – sembra aver perso ogni autorevolezza nella sua missione: intervenire – con approccio il più possibile “super partes” – nel rapido spegnimento dei focolai di crisi geopolitica, come ultimamente il conflitto russo-ucraino e la guerra di Gaza. Il Palazzo di vetro non pare più in grado di vincere la pressione crescente dei “conflitti d’interesse” strutturali su uno scacchiere geopolitico profondamente diverso da quello emerso dalla Seconda guerra mondiale e poi dalla caduta della Cina maoista e della Russia sovietica e da parecchio altro.

Il G20 è nato nel 1999, partorito e allargato dal G7, fondato nel 1973 per fornire una piattaforma intergovernativa di confronto geoeconomico più flessibile e incisiva dell’Onu. Quello convocato nel fine settimana in Sudafrica si è svolto tuttavia quasi a fari spenti. Ha pesato l’aperto boicottaggio Usa – gemello di quello che sta colpendo le Nazioni Unite – principalmente a motivo della linea dura promossa da Johannesburg contro Israele per la guerra di Gaza (che ha mandato in frantumi anche la Corte penale internazionale, grande accusatrice di Gerusalemme per “genocidio”).

La COP30 di Rio de Janeiro si è intanto conclusa senza esiti concreti in un’atmosfera di happening antagonista anti-occidentale: lontano dal grande evento sovranazionale che nel 2015 produsse gli Accordi di Parigi sul cambiamento climatico. Nell’ultimo decennio anche le agenzie di rating sembrano aver perso la loro aura di “master of universe”, conquistata agli apici della globalizzazione finanziaria.

Nel 2011 Moody’s contribuì in modo decisivo – con Standard & Poor’s – a una crisi politica epocale in Italia: venerdì sera l’annuncio – a suo modo storico – di una promozione dello stesso rating dell’Italia ha faticato ad affacciarsi su home e prime pagine. E un Paese come la Francia può ignorare il bombardamento di declassamenti decisi dalle diverse agenzie per l’avvitamento della sua crisi politico-finanziaria (prevedibilmente resterà sorda anche l’Ue che invece condannò l’Italia a una dura austerity). Eppure le Tre Sorelle di Wall Street non sono cambiate dai favolosi anni ’90 del secolo scorso, piuttosto che dal gravissimo incidente di percorso del crollo di Wall Street nel 2008.

Erano allora e sono ora agenzie a proprietà privata, caratterizzate da evidenti conflitti d’interesse con i mercati – e spesso con gli Stati – di cui sono state a lungo considerate giudici finanziari inflessibili e insindacabili: tanto che le loro pronunce sono finite incorporate anche in alcune regolamentazioni internazionali (la stessa logica dei parametri di Maastricht nell’unione monetaria Ue discende dall’egemonia tecno-finanziaria dell’ultimo trentennio).

Forse non è un caso che la ripresa di ruolo della politica nella globalizzazione della finanza e della tecnologia – nel sisma geopolitico avviato dalla pandemia e continuato dalle guerre – sia accompagnato da momenti di ridiscussione su chi garantisce cosa e come. Su quali conflitti d’interesse, vecchi e nuovi, minaccino davvero le democrazie occidentali. Conflitti sempre e ovunque ineliminabili, ma sempre e ovunque individuabili e contrastabili.

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