Il Mediterraneo è un sistema immenso che si può ripensare in un modo migliore, grazie alla Blue Economy
A Rimini, nei primi giorni di novembre, si rinnova sempre la stessa magia. Chi arriva a Ecomondo, la fiera della sostenibilità, pensa di parlare di ambiente, acqua, rifiuti, energia, e si ritrova in una specie di flusso, fatto di persone che si riconoscono, che credono alla transizione ecologica – per davvero, non per slogan – una rete che attraversa regioni e Paesi diversi e che una volta l’anno si ritrova per fare il punto.
Il must dell’ultima edizione è stata la circolarità, economica e ambientale; il modello a cui siamo abituati “prendi-usa-getta” è superato e tutto ruota nel rimettere in circolo le risorse e nel connettere attività legate all’acqua, al suolo, ai materiali, all’energia. In Italia, la circolarità economica vale già circa 13 miliardi di euro e coinvolge aziende che vanno dalla gestione dei rifiuti ai materiali biodegradabili ai sistemi di riuso dell’acqua.
L’Europa, che ha dato il via a questa tendenza, ha già presentato il suo Circular Economy Action Plan, un grande piano dove le risorse vengono riutilizzate, riciclate, rigenerate il più possibile con l’obiettivo di ridurre, del 50% entro il 2050, la quantità di nuove materie prime che estraiamo dalla terra per produrre oggetti, cibo, energia, ecc.
Altro vero exploit di quest’edizione è stata l’Economia Blu con un +25% di espositori rispetto all’anno scorso. E il mare a Rimini, con la sua vocazione e tradizione al turismo, si sente anche quando non lo vedi. La Blue Economy è stata considerata un macrosettore della fiera, perché il distretto “Water Cycle & Blue Economy” era un vero porto di genti in gran fermento da mattina a sera: associazioni, startup, aziende e ricercatori arrivati da tutta Europa che parlavano solo di acqua da monitorare, di mare da salvare e di coste da difendere.

Tutto un mondo che sta correndo, che è stato ben rappresentato nelle molteplici conferenze, workshop, incontri che si sono svolti nell’Ocean Agorà dove, ad esempio, il Cnr spiegava come le coste italiane stiano cambiando più velocemente di quanto ci rendiamo conto e l’Union for the Mediterranean, la più grande organizzazione per il Mediterraneo con i suoi 41 Stati membri, puntava sul concetto di un mare nostrum come un corpo unico, diretto da un’unica governance.
E poi il progetto Blue Mission Med, che se lo senti raccontare dai delegati della Comunità europea diventa qualcosa di molto concreto: ridurre l’inquinamento, rigenerare gli ecosistemi, far dialogare Paesi con diverse culture e velocità politica. E ancora i progetti Interreg, così importanti perché senza quei fondi mezzo Mediterraneo non potrebbe nemmeno cominciare a collaborare, sono infatti la parte finanziaria dell’Europa, quella che fa dialogare tutti: comuni italiani che parlano con porti spagnoli oppure regioni francesi che lavorano con centri di ricerca greci. Restando sul financing, è stato un tema forte quello del finanziamento della transizione blu trattato nella sessione “Eu funding for green & blue transition projects – a world of possibilities”.
Il discorso si è fatto interessante tra Cinea, Commissione, progetti Interreg, Blue Mission Med e l’Eic – European innovation council – che finanzia l’innovazione più avanzata, quella che non è ancora mercato, ma non è più ricerca pura. Si percepiva che i soldi ci sono, ma servono competenze per intercettarli e l’Italia, purtroppo, non è preparata; mancano i tecnici competenti nei piccoli comuni e non c’è chi sa approcciare un vero progetto da presentare alla comunità.
Ma quella che sembrava una sessione tecnica si è trasformata in una specie di racconto collettivo: sindaci che cercano fondi per mettere in sicurezza le loro coste, ricercatori che provano a far finanziare sensori e piattaforme digitali, imprese costiere che finalmente capiscono di non essere sole.
Si è parlato di blue bonds, di finanziamenti misti pubblico-privati, di bandi europei che spesso spaventano più per il linguaggio che per la complessità reale. E si è capito che la sfida non è solo reperire risorse, ma costruire una cultura finanziaria adeguata alla velocità con cui si muovono le esigenze legate al mare. Perché la transizione blu corre, mentre la burocrazia, molto spesso, procede troppo lentamente. E questo divario, raccontato così, senza tanti giri di parole, ha colpito molti dei presenti.
C’è stato poi un evento quasi simbolico: la presentazione nello stand della Comunità europea del progetto “Blue Ports”. Parlare di porti in una fiera così può sembrare poco importante, e invece i porti sono il punto in cui economia e ambiente devono dialogare. E l’Italia con i suoi 58 porti principali, se seguirà il modello presentato di riconversione dei porti, potrà avere un impatto fortissimo sull’emissione di CO2 e sull’erosione delle sue coste.
La frase che è rimasta impressa – “i porti sono i nuovi laboratori della sostenibilità” – suona molto reale se la senti lì, con intorno modelli in scala, mappe, sensori, soluzioni per ridurre emissioni e consumi. Ti rendi conto che il Mediterraneo, nel suo complesso, è un sistema immenso che si può ripensare in un modo migliore, ma è anche lavoro, è tecnica, è cooperazione, è politica.
E poi le associazioni, tantissime e utilissime. Camminando tra gli stand si aveva la sensazione che il mare avesse portato con sé la sua comunità.
Legambiente con le storie delle acque che cambiano anno dopo anno; Marevivo con la loro determinazione, che sembra non vacillare mai; Medsea che parla di posidonia come si parlerebbe di un patrimonio da custodire con delicatezza; Medpan che tiene insieme le aree marine protette come un’unica grande rete; l’Union for the Mediterranean che ricorda che siamo un mare, non venti Stati isolati; il Cluster Big che prova a dare una spina dorsale industriale alla Blue Economy italiana; WestMED che racconta come dieci Paesi possano, volendo, remare nella stessa direzione. E molte altre ancora…
È chiaro che nessuno di questi attori, da solo, ha la soluzione. Ma messi insieme formano una specie di struttura portante del Mediterraneo, fatta di sapere, pazienza, scienza, diplomazia e volontariato.
Ecomondo 2025 si è chiusa così, con la netta percezione che la Blue Economy ha smesso di essere solo un progetto, diventando una parte importante della transizione ecologica che ci permette di ricreare il nostro rapporto nei prossimi anni con il Mar Mediterraneo.
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