UNIVERSITA’/ Quattro domande e una crisi (che dura dal 2008)

- Luigi Fabbris

Conviene ancora studiare all'università? la laurea dà ancora un vantaggio competitivo per il lavoro? perché le iscrizioni all'università sono in calo? risponde LUIGI FABBRIS

universita_studenti_laureati_master_lezione_lapresse_2016 (LaPresse)

Sulle difficoltà di lavoro dei giovani laureati si scrivono anche cose senza fondamento. Non essendo facile separare quelle che hanno fondamento da quelle che non l’hanno, si finisce per confondere sia i neodiplomati e le loro famiglie che si stanno orientando verso gli studi universitari, sia i neolaureati che stanno cercando la propria strada nel mercato del lavoro. 

Per inquadrare il ruolo dell’università nell’Italia di oggi, presentiamo una serie di tasselli volti a comporre un mosaico sufficientemente informativo, a partire dal quale è possibile farsi un’idea della situazione.

1. Cominciamo col chiederci: conviene ancora studiare all’università? Vale la pena precisare che all’università si acquisiscono cultura e consapevolezza del sapere che non si potrebbero facilmente ottenere studiando da soli, o consultando il web, o per altre vie brevi. Tra l’altro, non sono pochi coloro che pensano che l’innalzamento del livello culturale dei giovani sia il fine primario dell’università. Se, però, con la domanda s’intende: “la laurea, oggi, serve a dare un vantaggio competitivo per il lavoro?” allora la risposta è meno lineare. I dati sull’occupazione sono chiari: il possesso di una laurea permette oggi di ottenere un lavoro con maggiore facilità o, se si vuole, con minore difficoltà di qualsiasi altro titolo.

L’Istat (L’Italia in cifre. 2016) informa, infatti, che a tre anni dal titolo è in cerca di lavoro il 12-13% dei laureati magistrali, il 19-20% dei laureati triennali, almeno il 30% dei diplomati di scuola superiore e almeno il 40% di chi è senza diploma. Non è difficile immaginare che, se per un posto di lavoro pertinente si presentassero un laureato magistrale e uno triennale, quello magistrale sarebbe favorito nella scelta; mentre se la competizione fosse tra un laureato triennale e un diplomato di scuola superiore, il triennale scalzerebbe il diplomato; a sua volta, il diplomato vincerebbe l’eventuale confronto con chi non avesse neppure questo titolo.

2. Seconda domanda: allora perché le iscrizioni all’università sono in calo? Si verifica da anni un calo fisiologico degli immatricolati dovuto alla minore natalità, tuttavia non si sta verificando alcun crollo sistematico di iscritti. Si nota, invece, una considerevole minore propensione degli studenti ad iscriversi ad università del Meridione e a spostarsi dal Sud al Nord per realizzare gli studi universitari, tendenza che, se permangono gli attuali sistemi di valutazione e premialità delle università, non è destinata ad esaurirsi. In realtà, in rapporto al numero di residenti, il sistema educativo italiano mostra dati piuttosto stabili (Istat, Italia in cifre. 2016): nel 2014/15, il 93% della popolazione in età 14-18 frequenta una scuola secondaria superiore (era il 93% anche nel 2005/06, mentre era il 68,3% nel 1990/91) e s’immatricola all’università il 29,4% dei diciannovenni (era il 30,8% nel 2005/06). Alla fine, si laureano in Italia circa 300mila giovani ogni anno (I + II livello). Pertanto, anche se la tendenza è a lentamente ridursi, i grandi numeri dell’università italiana sono tuttora importanti. Anzi, il numero di laureati tra i giovani è quasi uguale alla soglia-obiettivo della Ue, in risalita negli ultimi anni, partendo da posizioni molto sfavorevoli. 

Se proprio vogliamo porci un problema in relazione agli accessi all’università italiana, consideriamo la classe sociale degli immatricolati e dei laureati odierni. Rispetto agli anni 60 e 70, quando l’accesso all’università costituiva la via principale attraverso la quale i figli delle famiglie meno abbienti potevano competere per posizioni elevate nella società, oggi gli studenti di più basso livello sociale — prima e durante l’università — sono più attratti dal lavoro che dall’alta istruzione, si perdono numerosi durante il percorso di studi e ottengono minore profitto se si impegnano allo stesso tempo nello studio e nel lavoro. In sintesi, la funzione di ascensore sociale dell’università si è inceppata.

3. A questo punto è necessario farsi un’altra domanda cruciale: a che cosa possono servire tutti questi laureati? Abbiamo già stabilito che, se l’obiettivo è di alzare il livello culturale medio del Paese, quanti più sono, tanto meglio è. Anzi, ci sono paesi, come l’Olanda e alcuni stati del nord Europa, che hanno orientato i propri grandi numeri proprio in questa direzione. Se, invece, si pensa alla formazione di terzo (laurea) e quarto (dottorato di ricerca) livello come ad investimenti volti a creare valore professionale, allora bisognerebbe laureare i numeri sostenibili dal mercato del lavoro. Questi numeri, per ora, purtroppo, nessuno li conosce perché nessuno ha pensato di definirli, con l’eccezione delle lauree di ambito sanitario per le quali il ministero della Salute stabilisce alcuni parametri nazionali e ripartisce i numeri conseguenti tra le università. 

Poi ci sono i “numeri chiusi” all’accesso, numeri che sono — di solito — determinati combinando gli auspici degli ordini o collegi professionali (i quali però vorrebbero pochi o punti inserimenti) e quelli delle università (che vanno nella direzione diametralmente opposta agli auspici degli ordini/collegi). In genere funziona così: le università provano con certi numeri e poi verificano se il mercato è in grado di autoregolarsi. Questo fenomeno, che era tipico delle lauree alle quali corrispondevano professioni, è oggi proposto perfino per l’accesso a corsi di studio di ambito umanistico. Quest’ultima proposta si può interpretare come un modo per mettere le mani avanti, provocando chi si sta per iscrivere a riflettere circa le prospettive di lavoro. A nostro avviso, una riflessione più coraggiosa e meno improvvisata, a livello nazionale, sulla relazione tra la formazione di alto livello e gli sbocchi possibili sarebbe apprezzata tra le persone di buon senso, che nella società sono maggioranza.

La crisi produttiva ed occupazionale iniziata nel 2008 ha messo ancor più a nudo i pericoli sociali che porta con sé l’assenza di una seppur minima programmazione. Infatti, sul mercato nazionale, vi è uno sbilanciamento tra domanda e offerta di professionalità qualificata che induce molti giovani laureati a cercare lavoro all’estero, altri a ripiegare su posizioni di secondo piano per restare nel Paese e altri ancora ad isolarsi dal mercato del lavoro. Questi ultimi sono i cosiddetti Neet, che sono un problema per tutta l’Europa e che, per fortuna, in Italia, costituiscono quote minime, circa il 2% dei laureati.

Lo sbilanciamento tra domanda di professionalità e offerta di lauree riguarda sia le lauree di ambito scientifico (cioè le cosiddette “scienze dure” come la matematica, la fisica, la chimica e le biotecnologie) e tecnico (le ingegnerie, l’informatica, la statistica, ecc.), lauree che danno la possibilità di trovare lavoro in tempi ragionevoli anche in presenza di crisi produttive, sia le lauree di ambito sociale e umanistico, le quali si collocano sul mercato dopo lunghi periodi di ricerca e con restringimento delle possibilità quando ci sono le crisi.

4. Cosa deve dunque fare un giovane che sente l’impulso di operare nella società mettendo a frutto la sua conoscenza dei fenomeni storico-sociologici, o psicologici, o filosofici, o dell’arte e della letteratura? Anzitutto, deve informarsi su come è fatto il mercato. La pretesa di cambiare il mondo con la propria presenza vale quanto quella di raddrizzare le gambe ai cani. Poi, muovendo dall’ipotesi che, per essere accettato nel lavoro, bisogna saper fare qualcosa, può corredare la cultura acquisibile nei corsi universitari con un master professionalizzante, oppure può offrirsi per svolgere un stage in un’azienda durante gli studi (anche se non è obbligatorio) o appena dopo il conseguimento del titolo, infine può acquisire esperienza di lavoro quale che sia. Lavorando, conoscerà i contesti lavorativi, ne comprenderà le dinamiche e svilupperà doti professionali trasversali (le cosiddette soft skills) e doti caratteriali orientate al lavoro (le cosiddette character skills).

L’utilità delle abilità professionali trasversali nella ricerca di lavoro e ai fini dello sviluppo professionale è assodata. Però lasciamo sullo sfondo l’argomento per affrontare il tema della competitività dei laureati italiani. Commentando gli strani dati di una ricerca dell’Oecd, l’organizzazione dei paesi economicamente progrediti, il responsabile del settore formazione dell’Organizzazione è uscito con un’affermazione piuttosto infelice: poiché dall’applicazione di un proprio test generalista è risultato che i laureati italiani e spagnoli avevano ottenuto i punteggi più bassi, rispetto ad altri laureati europei, l’esponente dell’Oecd ha affermato che finalmente si spiegava perché in Italia e Spagna c’erano così tanti laureati disoccupati. L’affermazione meriterebbe una congrua risposta, tuttavia ribadiamo, in linea con quanto già detto sopra, che in Italia (e Spagna):

C’è meno lavoro che in altri paesi europei e quindi ci sono più disoccupati che altrove;
– la proporzione di laureati senza lavoro è solo una piccola parte del totale dei giovani disoccupati;
– i laureati italiani sono così ben preparati nella gran media che, quando cercano lavoro all’estero, sono molto apprezzati sia per svolgere lavori di alta professionalità, sia per svolgere attività di ricerca avanzata nelle università e nei centri di ricerca.

Un ultimo discorso sulle laureate e il lavoro. Se si esaminassero i dati nazionali senza distinguere per categorie si potrebbe ricavare l’errata impressione che le laureate sono sfavorite nell’inserimento lavorativo quantunque il loro voto medio di laurea superi quello maschile. Se si leggono bene i dati, si capisce invece che sia i voti di laurea, sia le difficoltà nel trovare lavoro dipendono dal corso di laurea seguito. Infatti, le maggiori difficoltà di inserimento riguardano i comparti sociali ed umanistici, i quali sono frequentati in larga maggioranza da donne e nei quali si registrano voti medi alla laurea superiori alla media, mentre i corsi di area tecnica, in modo particolare le ingegnerie, sono frequentati in netta maggioranza da uomini e vi si ottengono votazioni medie contenute. In definitiva, le difficoltà non dipendono dal genere, ma dai corsi seguiti. Anche se può sembrare estranea in questo contesto, facciamo nostra l’affermazione di molti studiosi che la vera parità di genere tra i giovani sarà raggiunta quando ad ingegneria si iscriverà una studentessa per ogni studente.

È, invece, autentica e grave la disoccupazione al Sud, in modo più marcato per le donne. Al Nord, nel 2015 (Istat, 2016), lavorano 77 donne ogni 100 uomini occupati; al Centro, 79; al Sud solo 59. Tutto questo rapportato ad un tasso di disoccupazione che è dell’8% al Nord e del 20% al Sud. Queste sono le vere radici dei problemi del Paese.





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