ELUANA/ Quell’arbitrio che pretende di giudicare il mistero della vita

È un motivo procedurale quello che sostiene l’ultima e definitiva decisione giudiziaria della Cassazione a sezioni unite sul caso Englaro. Il paradosso di un diritto all’autodeterminazione che si rivolge contro l’uomo stesso. Ma le responsabilità delle autorità giudiziarie si innestano su un vuoto legislativo che non è ancora stato colmato

Poiché l’affare è privato, Eluana può morire. È un motivo procedurale quello che sostiene la decisione, l’ultima e definitiva decisione giudiziaria della Cassazione a sezioni unite sul caso Englaro: la procura di Milano non ha titolo per opporsi alla precedente decisione della Corte di appello che autorizzava l’interruzione della alimentazione e dell’idratazione della giovane donna in stato vegetativo, perché non è coinvolto alcun interesse pubblico, ma solo una decisione individuale. Dunque nessuna legittimazione della procura – il soggetto che rappresenta la sfera pubblica nel processo – perché la decisione sulla vita e la morte di una persona è un affare privato.


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Déjà vu: nel 1973 la Corte suprema degli Stati Uniti nel famosissimo caso Roe v. Wade inaugurava la liberalizzazione dell’aborto in nome della privacy della donna incinta: decidere se portare a termine una gravidanza è un affare privato, in cui la società non deve intromettersi. La vita e la morte sono un affare privato.


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Dietro l’apparente asetticità di una decisione procedurale – “il ricorso è inammissibile” – si nasconde in realtà una precisa concezione sostanziale. Dire che non c’è un interesse pubblico in una vicenda come quella di Eluana Englaro significa dire che ognuno deve poter decidere da sé sulla propria vita e sulla propria morte. È il trionfo del diritto alla privacy: un diritto dell’uomo che spesso, troppo spesso porta a gravi decisioni contro l’uomo. Un tragico paradosso del nostro tempo.

Ma la decisione delle Sezione unite è solo l’ultimo sviluppo, non obbligato peraltro, di una serie di decisioni e di responsabilità che coinvolgono molti altri soggetti istituzionali. Nell’ottobre 2007 la Cassazione, sezione I civile, aveva già posto le premesse per questo epilogo, nel momento in cui aveva deciso che il caso Englaro doveva essere risolto cercando di ricostruire la volontà della malata, in stato di incoscienza ormai da sedici anni. C’erano anche altre strade percorribili per risolvere il caso, ma la Cassazione ha prescelto quella della volontà.


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Ancora più grave la leggerezza con cui la Corte d’Appello di Milano nel luglio 2008 aveva ritenuto di poter desumere una volontà chiara e inequivocabile di Eluana dalla testimonianza di alcune amiche e soprattutto dallo “stile di vita” della malata. Un carattere autonomo, indipendente e libero, dunque vuole morire, si è detto.

Indizi ed elementi, quelli dai quali si è ricostruita la presunta volontà di morire di Eluana Englaro, talmente fragili che se si utilizzassero parametri così blandi ed evanescenti per decisioni di altra natura – ad esempio per concludere un contratto o per disporre di beni materiali – non si esiterebbe a dire che la volontà del soggetto è viziata o manca o non è univocamente accertabile. Ma per decidere di morire basta molto meno, così ci insegnano i nostri giudici.


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Il presupposto di tutte le decisioni, sempre affermato assertivamente, è che Eluana vive una non vita. La scienza però non è in grado di dire una parola certa sulla vita in stato vegetativo: è piuttosto una vita avvolta nel mistero. Chi potrebbe affermare oltre ogni ragionevole dubbio che Eluana non prova nessun sentimento e nessuna sensazione? Nessuno ha avanzato l’ipotesi che, nel dubbio, potrebbe essere più opportuno proteggere la vita, a puro scopo di precauzione.

Fin qui le responsabilità delle autorità giudiziarie, che si innestano su un vuoto legislativo che non è ancora stato colmato. Salvo pochissime eccezioni, il mondo delle istituzioni politiche rimane inerte. Il governo e il parlamento non hanno saputo sfruttare il tempo offerto loro su un piatto d’argento dalla impugnazione della procura di Milano per giungere all’ approvazione di una legge sui problemi di fine vita. Eppure all’occorrenza in passato si è trovata la strada per interventi normativi anche d’urgenza su questioni molto meno decisive per la vita del popolo italiano all’esame della magistratura. Se anziché cimentarsi con un improbabile conflitto di attribuzione, il cui esito era fin troppo facile pronosticare, le camere avessero speso le loro energie per fissare alcuni contorni ai problemi giuridici sulla fine della vita, forse oggi non saremmo di fronte a questo triste epilogo.


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Un verdetto che riguarda anche ciascuno di noi che assistiamo impotenti alla fine di una vita.

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