Un’altra manovra

Mentre il nostro Paese subisce pressioni dalla finanza internazionale deve anche cercare di rispettare gli impegni presi per il risanamento dei suoi conti pubblici

La crescente forbice tra gli spread dei titoli di Stato italiani e gli omologhi tedeschi contiene due elementi. Il primo è sicuramente legato a fenomeni speculativi ed evidenzia che vi sono operatori importanti che stanno scommettendo sul default dell’Italia. Il secondo è legato invece alla situazione reale dei nostri conti pubblici e al giudizio che i mercati danno sulla capacità del governo italiano di assumere decisioni che garantiscano una loro tenuta nel medio e lungo periodo.


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Premesso che i circa 300 punti di differenza con i titoli tedeschi significano sovra-costi per interessi che ammontano a oltre 45 miliardi di euro, occorre riflettere su cosa è possibile fare concretamente per fermare, nell’immediato, la speculazione, ma soprattutto per guardare al futuro con maggiore sicurezza.

La decisione di Tremonti di sospendere l’asta dei Btp ventennali prevista ad agosto, che sono quelli su cui gli speculatori si concentrano in ragione delle maggiori convenienze, costituisce anch’essa una mossa emergenziale e cautelativa, ma che non può per definizione diventare una misura strutturale.


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La manovra recentemente approvata, che rischia di essere vanificata dalla quotazione dei Btp, mirava a perseguire l’equilibrio nel rapporto deficit/Pil entro il 2014. Quello che gli organi d’informazione, tranne qualche sporadica eccezione, tacciono sono i contenuti del documento redatto dalla Task Force Van Rompuy in relazione alla nuova governance economica dell’Ue, che gli Stati membri e le Istituzioni europee stanno approvando secondo una precisa tabella di marcia. In sostanza, è previsto che, a partire dal 2014, in vent’anni i Paesi europei portino il rapporto debito/Pil sotto il 60%. Per l’Italia, significa operare tagli per quasi 46 miliardi di euro all’anno per venti anni.


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Di fronte a questo scenario converrebbe porre immediatamente mano al problema, senza rimandarlo al futuro. Ci sono tre mosse da fare. E vanno fatte subito. La prima è mettere mano a una vendita significativa del patrimonio pubblico (immobili e partecipazioni azionarie), che determini entrate per almeno 300 miliardi, vincolando però la destinazione di queste risorse alla riduzione del debito.

A valori correnti, avremmo un risparmio annuo sugli interessi che pesano sul bilancio dello Stato per quasi 15 miliardi. La misura avanzata da esponenti della sinistra, come Giuliano Amato, di una patrimoniale è l’unica alternativa reale a questa proposta, ma comporta iniquità e conseguenze depressive sui consumi e, di conseguenza, sul Pil.


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La seconda mossa può apparire politicamente scorretta, ma è necessaria. In Italia, la ricchezza è superiore di otto volte il reddito. Se la ricchezza è bloccata per paura del fisco, l’economia inevitabilmente si ferma. La paura del fisco costituisce, ad esempio, la causa principale dello stagnamento del mercato immobiliare, che rappresenta, insieme all’automobile, la nostra filiera industriale più lunga.

Di fronte a un nuovo sistema di accertamenti fiscali ormai inesorabile (seppur discutibile nel metodo), occorre “tirare una riga” sul pregresso attraverso un condono tombale, sia per le persone giuridiche che le persone fisiche (con la sola esclusione dell’Iva, che l’Europa contesterebbe). Certamente un condono siffatto sarebbe più “accettabile” una volta realizzata la riforma fiscale, ma per allora rischiamo di arrivare troppo tardi. Se fatto subito, al contrario, il condono, oltre a togliere timori e a rilanciare i consumi interni (che costituiscono due terzi del Pil), porterebbe alle casse dello Stato tra i 25 e i 30 miliardi di euro.


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Queste risorse potrebbero finanziare, a questo punto non in deficit, una nuova “Legge Tremonti” ovvero costituire un premio fiscale per gli investimenti delle imprese. In particolare, si dovrebbero finanziare gli investimenti nel capitale, secondo tre direttrici: capitale finanziario, capitale tecnologico e capitale umano. Con riferimento a quest’ultimo, sarebbero da defiscalizzare le imprese che assumono personale qualificato, anche graduando il beneficio a seconda del titolo di studio.

Potrebbe essere consentita una deduzione del 200% per tre-cinque anni a chi assume un giovane in possesso del titolo di dottore di ricerca, del 150% se la scelta ricade su persona in possesso di master universitario, e così via. In generale, il risultato sarebbe un rilancio dell’economia attraverso il rafforzamento sostanziale delle imprese e degli investimenti (non a caso in questo decennio il picco di crescita del Pil e delle conseguenti entrate dello Stato è stato ottenuto nell’anno successivo alla legge finanziaria del 2005 che conteneva la Legge Tremonti). Inoltre, un provvedimento come questo avrebbe pure un forte valore simbolico nei confronti dei giovani, incentivandoli a raggiungere il più alto livello degli studi.


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Poiché le decisioni in sede europea sono prese e potranno essere attenuate solo in misura assai marginale, agire subito comporterebbe una situazione assai più agevole; l’Italia sarebbe poi in grado di attuare politiche di bilancio non inique, ma anzi proattive nei confronti delle famiglie e delle piccole e medie imprese. Senza crescita, infatti, la stabilità dei conti pubblici costituirebbe un’illusione di breve periodo. Oltre a ciò, le agenzie di rating non potrebbero ignorare una volontà di risanamento effettiva, premiando i nostri titoli di Stato e riavvicinandoli sensibilmente ai valori di quelli tedeschi.


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