La politica che vorrei
Per LUCA DONINELLI, il pensiero come funzione ancillare degli schieramenti politici, l’uomo di pensiero è ridotto a supporter, è uno dei mali da cui il nostro tempo non riesce a schiodarsi

Sui contenuti dell’articolo “Il coraggio di ricominciare” di Giorgio Vittadini sarà opportuno riflettere molto attentamente. Dedicato ai lavori dell’Intergruppo, questo testo apre al tempo stesso un dibattito radicale sul futuro (ma anche sul presente) del nostro paese, senza tralasciare – così a me sembra – alcun punto fondamentale. Vorrei soffermarmi su due dei molti nodi che fa venire al pettine. Quando, parlando dell’Intergruppo, si domanda se “i suoi protagonisti credono veramente che tale realtà, oltre che a qualche importante iniziativa culturale, possa dare un reale contributo anche all’azione politica”, Vittadini non fa altro che riferirsi all’inizio di un discorso tanto citato a destra e manca quanto ignorato nella sostanza, pronunciato da don Giussani ad Assago nel 1987, dove si definiva la politica come la “forma più compiuta di cultura”.
Successivamente, discutendo dei riformisti dell’Intergruppo di centrosinistra, Vittadini usa un’altra espressione molto dura quando parla di “delega del pensiero a intellettuali sostenitori della finanziarizzazione dell’economia e dell’aumento della spesa pubblica”. In queste due frasi si condensa un grave problema: quello di una cultura che non riesce a diventare politica, ossia quello di un discorso sull’uomo (cultura) che non riesce a produrre una passione operativa per l’uomo (politica). C’è una frattura, una spaccatura. La cultura va bene, per carità, ma quando poi si comincia a fare politica entrano in ballo altre cose. Questa potrebbe essere vista come una fatalità inevitabile: la politica è l’arte della mediazione, e nessuno di noi sogna una società trasformata nel laboratorio di qualche utopista.
Abbiamo già avuto Mussolini, Hitler, Lenin, Stalin, Pol Pot. La politica è un compimento della cultura, nel senso che solo un vero ideale umano può trasmetterle quella passione per l’uomo senza la quale essa si riduce a stanco gioco di potere in attesa del solito uomo forte: ma è un compimento drammatico, non una conseguenza tirata col righello. Con un’aggiunta, però: che la riflessione culturale, proprio perché definisce o tenta di definire l’uomo nel complesso delle sue dimensioni, non può ridursi a una “delega”: la delega del pensiero, cui fa cenno Vittadini. Il pensiero come banale funzione ancillare degli schieramenti politici è uno dei mali da cui il nostro tempo non riesce a schiodarsi.
Se l’uomo di pensiero è ridotto a un supporter (a volte pagato) di questa o quella corrente di potere, che contributo potrà dare al risveglio di una passione politica? In questo, io trovo abbastanza deleterio il ruolo di diverse fondazioni culturali a supporto all’azione politica. Un pensiero “delegato” avrà sempre paura della libertà, perciò non potrà che sostenere la finanziarizzazione dell’economia e l’aumento della spesa pubblica, e mai il contrario. O, comunque, una forma di statalismo, magari soft, o mascherato. Eppure – e vengo al secondo punto – Vittadini alla fine del suo articolo insiste sul fatto che potrebbe non essere troppo tardi. E ha ragione. Anche qui, il discorso va ben oltre l’invito ai membri dell’Intergruppo a perdere piuttosto la cadrega che la dignità.
Dietro queste parole c’è un paradosso nazionale che salta all’occhio: da un lato, il Paese sta perdendo ogni fiducia nella politica, mentre dall’altra tutto tende a essere definito in termini di schieramento politico. Siamo a Bisanzio. Da dove può venire la speranza? La mia risposta potrà apparire semplicistica, ma tant’è: io credo che la speranza, fondata, possa venire solo da un uomo capace di vivere le diverse circostanze (ivi incluso l’inevitabile compromesso) nella consapevolezza della propria irriducibilità a qualunque progetto, politico o culturale che sia. Non l’uomo “integrale”, tutto d’un pezzo, tutto coerenza, che sta impoverendo il dibattito civile sui soliti temi (legalità ecc.), ma l’uomo “irriducibile” perché partecipe di una dignità infinitamente più grande rispetto a ciò che sta facendo “ora”. L’“ora” trae infatti senso da quella sproporzione infinita, che è anche – guarda un po’ – il tema del prossimo Meeting di Rimini. Senza questa premessa, perdere la dignità è la cosa più facile che ci sia. Provare per credere: non ce se ne accorge nemmeno. Anzi, ci sembra di essere bravissimi.
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