Mozart e le occhiate di un bambino

Nella breve vita di Mozart, la musica è stata un continuo fluire di acqua purissima, come se una inesauribile fonte di freschezza rendesse giovane qualsiasi ne venisse in contatto

Nell’editoriale di settimana scorsa abbiamo iniziato un piccolo e sommario viaggio sulle tracce di alcuni giganti della musica, allo scopo di cogliere i segni dell’apertura all’infinito – tema del prossimo Meeting – che la grande musica porta sempre con sé. Dopo la maestosa architettura di Bach, eccoci ora di fronte alla cristallina limpidezza di Mozart. Nella sua breve vita, la musica è stata un continuo fluire di acqua purissima, come se una inesauribile fonte di freschezza fosse capace di rendere giovane qualsiasi cosa ne venisse in contatto.
Qualche esemplificazione dalle opere teatrali. Il quarto atto delle Nozze di Figaro si apre con Barbarina alla ricerca di una spilla che crede perduta; cosa da nulla, banale disavventura di una servetta. Ma nelle mani di Mozart e attraverso la sua musica, quella situazione insignificante si trasforma in uno struggente richiamo a ben altra e più profonda perdita: quella originaria che ciascuno di noi sente nei momenti di acuta nostalgia. Barbarina non ha perduto una spilla, ma il paradiso terrestre. Così quando il conte di Almaviva, alla fine del Don Giovannni, chiede finalmente perdono alla moglie – lui che fino ad allora si era preoccupato solo delle sue avventure amorose e aveva ingiustamente sospettato della fedeltà della consorte – canta una melodia così struggente che non è più un marito che ammette una scappatella e un ingiusto sospetto: è l’uomo che chiede perdono all’universo, alla storia intera, in definitiva all’infinità di Dio di quello che in lui non è a posto; ed è tutto, salvo proprio quella lealtà che implora perdono. Oppure si riascolti la scena del Flauto magico in cui Pamino di fronte al castello del malvagio – così crede lui – Sarastro domanda se la sua amata Tamina sia chiusa lì dentro e se sia viva. La risposta dello sprecher e poi del coro è così improvvisamente bella e dolce che solo la risposta di un padre che soccorre suo figlio o di una madre che lo consola le sono paragonabili. Sono tutte improvvise aperture su uno spazio infinito.
Anche in questo caso – come abbiamo già visto per Bach – potrebbe sorgere una obiezione. Tutta questa dolcezza e luminosità non sono semplicemente frutto di una facilità di temperamento o di una vita fortunata?


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Non è così. E non tanto per i dati biografici di Mozart – che morì in miseria e sostanzialmente sconosciuto -, ma per la sua musica stessa. Dolcezza e luminosità, infatti, non trascurano ciò che loro si oppone; sarebbe un inganno. Prendiamo il secondo movimento della sonata per pianoforte K330. All’inizio sembra una musichetta allegra e di circostanza, ma poi, come scostando un velo di ovvietà, si fa pensosa, malinconica; per poi riprendersi di nuovo e di nuovo tuffare lo sguardo in quella strana tristezza. La gran parte dei celeberrimi adagi di cui Mozart ha costellato la sua opera (fino all’ultimo, incredibilmente dolce, del Concerto per clarinetto K622) sono proprio occhiate lanciate sulla tristezza. Ma non sono occhiate tristi, perché sono quelle di un bambino. Un bambino piccolo che può piangere perché si è fatto male, ma che nell’abbraccio dei genitori sente subito che quel male non occuperà mai tutto l’infinito orizzonte. A questo orizzonte infatti corrisponde adeguatamente solo una misteriosa ed inesauribile positività.

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