È stata una coincidenza rivelatrice. La scorsa settimana, quasi contemporaneamente alle dichiarazioni di Frances Haugen al Congresso degli Stati Uniti sugli abusi e le violazioni di Facebook, sia il social network che WhatsApp e Instagram (anche loro società dell’impero di Zuckerberg) hanno smesso di funzionare per sei ore. Durante questo lasso di tempo, che ci è apparso eterno, abbiamo tirato fuori decine di volte lo smartphone dalle nostre tasche senza riuscire a credere che non ci fosse alcuna notifica.
In più di due miliardi di utenti nel mondo cercavamo l’ultimo messaggio del nostro capo, un commento piccante in uno dei gruppi che ci animano le giornate, l’ultima predica o un messaggio d’amore. I corrispondenti hanno smesso di mandare i loro vocali e i parenti lontani non hanno potuto vedersi in faccia a costo zero. Nel momento in cui si verificava un nuovo crollo morale di Facebook, si rendeva evidente il suo grande potere. Siamo rimasti disorientati, con sintomi di astinenza, privati della libertà di un’applicazione digitale. Abbiamo confermato che, come dice Byung-Chul Han, “il regime neoliberale, che non opprime la libertà ma la sfrutta, non incontra resistenza. Non opprime ma seduce. Il controllo diventa completo nel momento in cui si presenta come libertà”.
Le dichiarazioni di Huagen, ex manager di Facebook, certificano quanto già sappiamo. È necessaria una forma di regolamentazione, un aggiornamento del concetto di sovranità per un mondo digitale e globale nel quale una società con 2,7 miliardi di utenti trasforma le persone in “miniere” di dati e favorisce la disinformazione. Una disinformazione che arriva a minacciare le basi della democrazia. Nei prossimi mesi entreranno in azione nell’Ue il Digital Services Act (DSA) e il Digital Markets Act (DMA) per cercare di aggiornare il controllo delle piattaforme.
Non è facile raggiungere un equilibrio tra la libertà di informazione e la possibile diffusione di fake news. Ancora si discute dell’opportunità della sospensione da parte di Twitter dell’account di Trump. Bisogna lasciare tutto all’autocontrollo? L’autocontrollo deve avere limiti esterni? In ogni caso, se Facebook, come ha indicato Haugen, dopo le elezioni negli Stati Uniti ha disattivato tutti i controlli di disinformazione e ha, direttamente o indirettamente, facilitato l’assalto al Campidoglio, la sfida è evidente. La tutela della privacy e la lotta contro la disinformazione dovrebbero essere obiettivi degli enti sovranazionali. Il numero di statunitensi che ritiene necessario il controllo della disinformazione in internet è aumentato al 48%, secondo Pew Research.
L’interruzione dello scorso lunedì non rende evidente solo il potere dei giganti tecnologici. La nostra sindrome di astinenza per l’assenza durata sei ore di messaggi dice molto di noi stessi. Già a suo tempo, Sean Parker, cofondatore di Facebook, spiegò che la progettazione di molte applicazioni della società aveva come obiettivo la colonizzazione dell’attenzione, ottenendo piccole cariche di dopamina. La dopamina è un neurotrasmettitore e causa sensazioni piacevoli. Anche Tim Wu nel suo libro “The Attention Merchants” ha denunciato i meccanismi psicologici usati nello sviluppo dei prodotti digitali per evitare la disconnessione.
In questo contesto, come segnala il filosofo Byung-Chul Han, la sfida è evitare che “ci si scolleghi dal mondo in forma crescente. Nella depressione perdiamo la relazione con il mondo, con l’altro”. Per recuperare il rapporto con il mondo e con l’altro c’è chi prescrive una specie di “digiuno tecnologico”. Certamente questo digiuno è necessario, com’è necessaria la regolamentazione da parte delle entità sovranazionali, ma senza capire il meccanismo antropologico per il quale siamo attratti dalle notifiche difficilmente la risposta sarà all’altezza della situazione.
Ci sono ragioni psicologiche, come spiega Parker, che riflettono la struttura della nostra persona. Siamo sempre in attesa di essere contattati, e l’attesa è talmente potente che, per soddisfarla, pare quasi ci basti un messaggio generico lanciato a un gruppo di vecchi compagni di scuola. Un nuovo messaggio significa la possibilità che qualcuno stia pensando a noi, la possibilità che qualcuno voglia dirci qualcosa, anche se fosse una banalità: che è arrivato in un certo posto, che sta facendo un eccellente pasto. Aspettiamo un messaggio anche se il nostro profilo si è perso nell’anonimato, perché un messaggio significa, in qualche modo, che qualcuno ci digita, che qualcuno pensa a noi, che gli importiamo. Come bambini piccoli, con un’identità insicura, sbaviamo, davanti al telefono, aspettando di ascoltare il nostro nome, come aspettavamo di sentirlo sulle labbra di nostra madre.
Mentre arriva una nuova notifica che ci annuncia che qualcosa è successo, in questa solitudine di chi crede di non essere pensato, domina l’attesa di una risposta che riteniamo necessaria. Non ammettiamo la possibilità di una domanda senza risposta. Solo gli intellettuali dicono che ci sono domande senza risposta. Noi aspettiamo la notifica come qualcosa non è dovuto, ma è irrinunciabile. L’attesa ci fa compagnia, diventa la compagnia più radicale. Senza capire che siamo fatti così, non ritorneremo a ricollegarci con il mondo.
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