Il sistema-Paese sembra tenere. Le crisi – pandemica, economica, politica e non solo – stanno facendo emergere una stabilità inaspettata. Domani tireremo le somme sul venerdì nero del green pass, ma oggi vale la pena guardare un po’ sotto la superficie. Dario Di Vico sul Corriere della Sera attribuisce questa tenuta ai due “sistemi cardine della struttura sociale, le famiglie e le imprese”, notando, a riguardo di queste ultime, che “sono rimaste agganciate alle economie forti, vorrebbero assumere ma non trovano e nonostante il blocco della mobilità delle merci hanno aumentato la quota di esportazioni“.
La dose di “immaterialità” dell’economia moderna continua a crescere inesorabilmente. Non solo per la sua componente digitale, ma anche per il contenuto di conoscenza e di valore “percepito” che impatta sulle dinamiche di mercato.
Parte del valore immateriale, non misurabile ma osservabile, di un’azienda, è il desiderio di chi crea un’impresa e di chi vi lavora. La sua passione, la sua energia creativa, il piglio con cui affronta le difficoltà e la voglia di superarsi. Mosse inafferrabili ma che cambiano tutto. Vanno oltre la capacità di interpretare le tendenze di mercato e allocare le risorse, finanziarie e non. Nei momenti difficili, rafforzare questo motore, che è fatto di dinamiche “sottili”, umane, è decisivo.
Un “guru” del management, Ikujiro Nonaka, professore ultraottantenne dell’università di Tokyo, ne è convinto da una vita. E di recente vi ha dedicato un libro scritto con Hirotaka Takeuchi e di recente pubblicato in Italia da GueriniNext, “L’impresa saggia. Come le imprese creano l’innovazione continua”, in cui dimostra che le “imprese sagge” sono quelle capaci di incidere sulle relazioni umane per infondere nuove conoscenze nelle pratiche organizzative, convertendole in azione e innovazione continua a livello individuale, aziendale e sociale. In un’intervista rilasciata all’Espresso, il professore giapponese ha affermato: «L’organizzazione dovrebbe tendere a verità, bontà e bellezza. E avvicinarsi all’ideale».
Un’economia più a misura d’uomo: è ciò che chiede gran parte della società sviluppata adesso. Per questo non è strano che anche chi non fa l’imprenditore se ne occupi. Come è accaduto mercoledì al Circolo del Sussidiario, dove sono stati invitati un giornalista (Ferruccio De Bortoli) e un sacerdote (Julián Carrón) a parlare di che cosa significhi il cambiamento delle persone nell’impresa.
Come rinforzare quel “quid” non misurabile che è il desiderio e la fiducia, anzi, la certezza di potercela fare nel costruire, nel creare impresa, nel lavorare in condizioni difficili o nel continuare a cercare un’occupazione?
Carrón sottolinea la strada più umana e realistica, quella del rapporto vero tra persone, come la miccia in grado accendere il motore. Sì perché l’impresa – precisa De Bortoli – è una comunità di persone libere e responsabili, non un mero agglomerato di risorse umane senza anima. E colpisce – come ha sentito dire di recente in un’assemblea di industriali veneti – che non si voglia più parlare di dipendenti, ma si preferisca usare il termine “collaboratori” perché per rispondere alle sfide del cambiamento è decisivo che i lavoratori condividano le finalità dell’impresa.
È questa del resto l’esperienza di quella parte delle aziende italiane che hanno ricominciato a crescere in modo consistente. Ed è il motivo per cui lo smart working va considerato una misura emergenziale, perché il lavoro non è vicenda individualistica, ma impegno comune e relazionale.
Questo sta cambiando anche il modo di concepire la governance dell’impresa e il rapporto con la “compliance”, le modalità di raggiungere la conformità a determinate norme, regole o standard. Se l’impresa cresce come comunità di persone e si spegne come insieme di monadi, non potrà essere solo il richiamo alle regole a far trovare a un’azienda il proprio posto a servizio della società in cui è. Solo il “contagio” dell’esempio positivo – sostiene Carrón – tra persone può fare la differenza e oliare il motore perché vada più spedito. “L’io rinasce di fronte a una presenza”, affermava don Luigi Giussani, ricordato più volte nel dialogo.
Tutti sappiamo cosa capita quando abbiamo la fortuna di lavorare con persone capaci di arricchirci sul piano umano e professionale, quanto meglio lavoriamo. De Bortoli ha aggiunto che la capacità di mettersi in moto positivamente l’uno con l’altro non si improvvisa.
E infine Corrado Passera, intervenuto dal pubblico, ha notato quanto sia difficile rispettare se stessi in tutte le dimensioni, invece di essere lacerati da aspetti che ci dividono: vita personale e professionale, giustizia sociale e produttività, convinzioni umane e religiose nostre e altrui in conflitto.
Una cosa è certa però, secondo gli interlocutori: la cultura dell’esempio che genera nasce dall’amore a ideali vissuti con convinzione, dall’accettare il sacrifico necessario per raggiungere un obiettivo. Persino dal fare tesoro dei propri errori e fallimenti, dal non ridurre il proprio desiderio (etimologicamente “sentire la mancanza delle stelle”) a desideri parziali. E soprattutto – ha affermato Carrón – nasce dalla consapevolezza che non si conosce mai abbastanza e non si è mai finito di imparare, sul piano umano e su quello professionale. Esperienza che lo stesso De Bortoli ammette di aver fatto quando, seguendo per curiosità un corso online per giornalisti, si è accorto di non sapere molte delle cose che lì venivano insegnate. Oppure quando ebbe l’occasione di assistere a un processo di selezione in un’azienda in cui i candidati ponevano domande ai selezionatori e questi si sottoponevano alla loro curiosità.
Come siamo usciti dal momento più duro dell’emergenza Covid? Vinti? Desiderando solo di dimenticare? Oppure avendo imparato qualcosa? Dalla risposta a questa domanda dipende anche il futuro delle nostre imprese.
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