Scuola, o si rischia o si muore

La scuola è il vero laboratorio del "dopo" pandemia. Ma finora è prevalsa una logica di continuità e protezione: quella più sbagliata di tutte. Adesso si deve rischiare

La pandemia non è un fenomeno concluso in se stesso, con un “dopo” ben circoscritto: la sua caratteristica decisiva non è infatti la gravità epidemiologica, bensì la durata. È con questa durata che i paesi occidentali si devono confrontare, ancorché piegati da tre ondate di contagi e solo ora giunti al contrattacco, grazie ad una campagna di vaccinazione più o meno efficiente, ma di sicuro inesorabile.

Prendere contatto con il fenomeno pandemico come con un fenomeno complesso, non riducibile ad una parentesi, è il salto culturale decisivo che ci può permettere di passare da una politica emergenziale a politiche concrete di convivenza col virus e di ricostruzione. Il “dopo” pandemico è già iniziato: esso non si aprirà con un 25 aprile inequivocabilmente riconoscibile, quanto con un’insofferenza, una fatica collettiva, che indica ai decisori politici la necessità di cambiare strategia e prospettiva.

Laboratorio di questo “dopo” è senza dubbio la scuola, una scuola che non tornerà più come prima nemmeno nell’anno scolastico 2021/2022 e che, pertanto, ha bisogno con urgenza di un pensiero forte che la guidi e la trasformi, rendendola capace di interagire positivamente con una situazione che si va via via evolvendo.

In questo anno e mezzo è prevalsa una logica di protezione, una logica che tende ad isolare per mettere al sicuro. La nuova fase che si è aperta in queste prime settimane di vaccinazione esige anzitutto di smetterla di aver paura del dolore. La generazione che stiamo crescendo è una generazione orfana perché priva delle due realtà genitoriali che – al di là della biologia – generano il soggetto: la maternità del piacere e la paternità del dolore. L’azione di genitori ed educatori negli ultimi decenni ha impedito progressivamente il contatto degli adolescenti con queste due istanze trascendenti, lasciando i ragazzi e le ragazze in ostaggio dei propri pensieri, lontani dal loro corpo, impossibilitati a verificare nell’urto con il reale le piccole e grandi intuizioni che forgiano un adulto.

Il primo cambio di passo che è chiesto alla comunità educativa è dunque quello di restituire alla scuola il suo ruolo di luogo rischioso: nei luoghi sicuri si muore, nei luoghi rischiosi si deve stare attenti, si devono affrontare regole, ostacoli, pericoli. Una scuola che smette di aver paura del dolore e del rischio è un ambito in grado di interpellare davvero l’umanità dei ragazzi, obbligandoli a mettersi in gioco per portare a casa se stessi, investendo e osando energie e caratteri per l’unico vero obiettivo dell’esistenza: incontrare l’altro per accettare sé.

Le scuole devono dunque riaprire al più presto proprio perché non sono luoghi sicuri, proprio perché in quell’insicurezza si cresce e si matura. Abbiamo preteso di trasformare gli istituti superiori in tante piccole Rsa, lasciando i nostri figli a casa ogni volta che si è sparso per le città l’odore del pericolo, finendo per chiedere loro non di essere giovani e di sfidare il nemico oscuro, costruendo legami di solidarietà e di mutua protezione, quanto di vivere e di comportarsi da vecchi, senza impiegare l’onnipotenza narcisistica dell’adolescenza nel campo che le è più affine e familiare, quello del limite.

Ci ritroviamo senza troppe speranze perché non abbiamo permesso alle speranze di sorgere, di far capolino e di maturare nelle vite dei nostri ragazzi. Li abbiamo ancora una volta difesi, rovesciando il paradigma antropologico di ogni società che chiede massima protezione per gli anziani e prima linea per i più giovani. In questo modo stiamo ferendo mortalmente il processo di definizione della loro identità e indebolendo l’autorevolezza della scuola, riducendola ad una noiosa Netflix del sapere dove puoi trovare tutto e dove non sei più costretto a pagare nessun prezzo per imparare e per crescere.

Estromettere il dolore dall’ordine civile implica accettare che i nostri figli saranno meno intelligenti nel comprendere il mondo, che è essenzialmente frutto del dialogo con il dolore, e meno pronti a intraprendere il rischio del piacere, che è ciò che restituisce al soggetto sicurezza e creatività, forza generatrice e capacità di esprimersi. La scuola ha un assoluto bisogno di rivedere i propri paradigmi pedagogici, perseguendo e non sanzionando l’errore, preferendo il fare e il progettare alla mera acquisizione formale di nozioni.

Il dopo della pandemia è già iniziato e non durerà poco. Esso sfiderà la nostra capacità di abitare il vuoto, l’assenza, il “non ancora”. Esso avrà ancor più bisogno di adulti che si liberino dai modelli del passato per trasformarsi in compagni di viaggio, in relazioni di ascolto, in punti gratuiti che accettano di perdere del tempo e di sprecarsi affinché chi si affaccia alla vita possa trovare la propria strada e uscire dal buio di questi anni grazie a quell’unica forza che – se coltivata – può da sola spostare le montagne e cambiare il mondo: quel desiderio di felicità che rischia di rimanere addomesticato dietro uno schermo invece di frangersi, come un’onda, sul duro e meraviglioso scoglio della realtà. Per farlo non basta una tempesta, a volte occorre anche il coraggio di un naufragio.

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