Università, la “resa” dei conti

Le università si devono rivolgere non solo a studenti e ricercatori, ma anche alla società nel suo complesso. E devono essere valutate anche su questo aspetto

Nelle scorse settimane sono stati resi noti i risultati della Valutazione della Qualità della Ricerca (VQR) per il periodo 2015-2019. In questo esercizio è comparsa una sezione che valuta le università rispetto all’impatto sulla società, la cosiddetta terza missione, sulla base di 676 resoconti di attività sottomessi. Sono stati per ora pubblicati i dati preliminari, mentre il testo dei resoconti della terza missione sarà reso disponibile il 30 luglio prossimo.

Chiariamo un punto preliminare: per qualità della ricerca si intende il grado in cui un certo lavoro è utilizzato da altri ricercatori e valutato positivamente. In questa valutazione entrano criteri come la rilevanza (= non posso ignorare questo contributo nello svolgere la mia ricerca), l’originalità (= questo lavoro ha mostrato risultati che nessuno aveva trovato prima), il rigore (= per il metodo usato dai ricercatori e per i dati utilizzati possiamo fare affidamento sui risultati), l’internazionalizzazione (= i risultati possono interessare non solo ricercatori in Italia ma potenzialmente in tutto il mondo). Quindi per qualità della ricerca si intende innanzitutto un giudizio, prima qualitativo e poi quantitativo (se necessario), formulato da ricercatori sul lavoro di altri ricercatori: può darsi che sia autoreferenziale, ma il termine non deve avere un significato negativo, perché la ricerca è avanzamento della conoscenza, e riesce a valutare in che misura la conoscenza avanza solo chi si trova sul confine, sulla frontiera – in una parola, chi fa della ricerca il suo mestiere quotidiano e la sua passione di vita. 

Senza questo chiarimento non riusciamo a capire cosa significa terza missione, che viene chiamata così per segnalare una nuova dimensione rispetto alle due missioni storiche delle università, l’educazione superiore, o didattica, e la ricerca. La nuova dimensione è in un certo senso sempre esistita, ma è diventata consapevolezza e intenzionalità solo negli ultimi decenni. L’idea è che le università si devono rivolgere non solo alle due audience tradizionali, ovvero gli studenti iscritti e i ricercatori, ma anche alla società nel suo complesso, con azioni esplicite, finalizzate, orientate a ottenere un impatto.

La valutazione della terza missione è stata preparata dall’Agenzia per la valutazione (ANVUR) con un lungo lavoro di studio e di discussione da me coordinato come membro del Consiglio direttivo. È stato creato un panel di esperti di alto livello, che ha sviluppato in dettaglio il modello di valutazione, sottoposto a consultazione pubblica, commentato in un grande convegno internazionale, da cui sono emersi alcuni punti importanti. 

Primo, va superata la concezione secondo la quale la terza missione si esaurisce nel trasferimento tecnologico, misurato attraverso brevetti e spinoff: è stata accettata la mia proposta di distinguere tra terza missione come produzione di beni privati e produzione di beni pubblici; le due aree hanno uguale dignità e importanza. Nel primo caso le università accettano di realizzare beni che possono diventare proprietà privata (brevetti, quote azionarie, licenze) perché comprendono che in assenza di un incentivo economico la trasformazione da ricerca a prodotti vendibili sul mercato semplicemente non avverrebbe. In questa dimensione rientrano ad esempio i diritti di proprietà intellettuale (brevetti, varietà vegetali), la creazione di imprese spinoff, la ricerca per conto terzi, la collaborazione con intermediari per il trasferimento tecnologico (parchi scientifici e tecnologici, incubatori, acceleratori).

Ma le università contribuiscono a migliorare la società anche con la produzione di beni pubblici, non appropriabili, che non producono immediatamente valore economico ma generano consapevolezza, cultura, partecipazione sociale, opportunità, tutela di diritti. In questa dimensione rientrano attività come la formazione degli adulti (Life Long Learning), la sanità pubblica (biobanche, infrastrutture per la sperimentazione clinica), la conservazione e gestione del patrimonio culturale (edifici storici, musei universitari, scavi archeologici) e il public engagement, che comprende le iniziative volte a condividere formazione e ricerca accademica anche con le persone che non hanno con l’università nessuna relazione di studio o lavoro: nella VQR 2015-2019 la lista è stata leggermente ampliata ma è rimasto l’impianto iniziale.

Secondo, la valutazione della terza missione deve essere complementare ma separata rispetto alla valutazione della qualità delle ricerca. Non si possono sommare o compensare tra loro. Non si può giustificare una bassa qualità della ricerca con buoni risultati di impatto sociale. 

Terzo, mentre tutti i ricercatori individualmente sono responsabili della propria ricerca, che fa parte integrante del ruolo, la terza missione richiede una dimensione organizzata e istituzionale. È responsabilità delle università nel loro insieme, perché richiede la predisposizione di strutture dedicate (per esempio, Technology Transfer Office, Ufficio comunicazione, Ufficio brevetti) e coinvolge i singoli ricercatori in modo variabile. Da qui la scelta metodologica di chiedere alle università di sottomettere dei resoconti qualitativi delle proprie attività principali di impatto nella società.

Infine, la valutazione della terza missione richiede il coinvolgimento della società: per questo nei panel di esperti sono stati coinvolti numerosi stakeholder esterni all’università.

È stato necessario un lungo percorso, ma l’Italia è oggi uno dei pochi Paesi nei quali è possibile “chiedere conto” alle università del loro contributo alla società in modo dettagliato. Se gli opinionisti che spesso criticano il mondo accademico (talora giustamente, ma molto spesso con sensazionalismo superficiale e poco informato) si prendessero la briga di leggere la valutazione della terza missione, scoprirebbero quanto le università fanno per la società intera. Molto, decisamente.

Come ebbe a dire Piero Calamandrei nel 1950, le università sono un organo costituzionale. E dentro il corpo che è rappresentato dalla Costituzione, le università sono l’organo che produce il sangue. 

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