Natale, le domande da cui non possiamo scappare

Per cosa siamo stati creati? chiede Billie Eilish in una sua canzone. La risposta viene dal Natale: Dio ha voluto farci partecipi di ciò che è suo

Con quale domanda entriamo in questo Natale? “Prima galleggiavo, ora cado e basta. Prima sapevo, ma ora non sono sicura. Per cosa sia stata creata. Per cosa sono stata creata?”. La domanda che Billie Eilish mette al cuore della sua canzone What Was I Made For? è la provocazione giusta con cui entrare nel mistero del Natale. “Perché ci sono? Chi mi ha voluto? Per cosa sono stato creato? Con quale compito?”. Che dono queste domande da cui non possiamo scappare.

Tentiamo di giocare con le parole, con le interpretazioni delle parole, con i concetti che nascono dall’interpretazione delle parole, come facevano i farisei più istruiti e influenti, ma non possiamo scappare da quelle domande. E Nicodemo non è scappato. Cerchiamo di farci bastare potere e fama, soldi e amici ricchi, come forse era la vita nelle corti di Persia al tempo di Gesù, ma non possiamo scappare da quelle domande. E i Magi non sono scappati. Ci barcameniamo nel lavoro quotidiano, schiacciati dalle solite cose, dalle solite fatiche, tirati di qua e di là dalle battaglie che il mondo ingaggia nell’inesausto tentativo di sfiancarci, ma non possiamo scappare da quelle domande. E i pastori non sono scappati. È troppo seria la vita perché non ci trovi presenti con una domanda, con quella domanda che ci spiazza e fa cadere ogni alibi: per cosa sono stato creato? Il Natale ci dà appuntamento a Betlemme ridestando in noi l’insopportabilità di una vita inutile e proponendo come risposta il volto di un bambino. Di un bambino, il Figlio di Dio, che assomiglia a una donna delle nostre. Il Natale rompe gli schemi mostrando le conseguenze dell’iniziativa della Trinità di inviare il Figlio in mezzo a noi.

Come scrisse sant’Ambrogio: “Assunse ciò che è mio per farmi partecipe di ciò che è suo”: questa è la conseguenza più amabile ed estrema dell’incarnazione del Verbo. Non avremo tempo sufficiente nella vita per ringraziare, e per accorgerci fino in fondo, di questo vertiginoso rischio che Dio si è preso con ciascuno di noi. Fino a scoprire che genere di novità rende possibile, nella vita, il fatto che l’umanità del Figlio sia diventata la nostra. Si trova espressa in modo unico in quello che disse don Luigi Giussani in un incontro ad Assago nel 1991: “Siamo amati più di quanto teneramente voi abbracciate e baciate e curate il vostro bambino. Siamo voluti più di quanto ognuno, ferocemente attaccato al suo amor proprio, pretende imporsi. È senza paragone, il paragone che faccio… è una novità che deve entrare nel modo di concepire e di pensare noi stessi. È come entrare in un paese nuovo: il paese del nostro io”. La possibilità dell’ingresso in un paese nuovo è ciò che Cristo scommette con me e con te, fino a scoprire che si tratta del “paese del nostro io”. Lì ha piantato la sua tenda, lì ha preso dimora, lì ci attende.

Che mistero che siamo! Ecco perché, come diceva sempre don Giussani: “Il supremo ostacolo al cammino nostro di uomini è la ‘trascuratezza’ dell’io. Il primo punto, allora, di un cammino umano è l’interesse per il proprio io, per la propria persona. Un interesse che sembrerebbe ovvio, mentre non lo è per nulla: basta guardare al nostro quotidiano comportamento per vedere quali immani squarci di vuoto della coscienza e di sperdutezza della memoria lo qualificano”. Ciò da cui il Mistero di Dio è partito per realizzare la grazia della sua compagnia alla nostra vita, può diventare la prima cosa che trascuriamo. Il Natale ci dà appuntamento nella nuova Betlemme, il paese del nostro io, dove ci attende la scoperta più decisiva di sempre: “Penso di aver dimenticato come essere felice. Qualcosa che non sono, ma qualcosa che posso essere. Qualcosa per cui aspetto. Qualcosa per cui sono stata creata” (Billie Eilish, What Was I Made For?).

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