Nel precedente intervento abbiamo concluso sottolineando la varietà dei modi a cui la ragione può essere abilitata a uniformarsi ponendosi nella scia di una fede riconosciuta come chiave di volta dell’esistenza.
Vi è senza dubbio il movimento della ragione che accoglie e cerca di comprendere tutta la precaria fragilità del tentativo umano. La mette in rapporto con le prospettive liberanti aperte dal respiro della fede e insegue ogni strada possibile per avvicinare gli uomini del proprio tempo al contatto con la novità della testimonianza cristiana. È la via dell’investimento sul credito misericordioso, a oltranza, che passa attraverso il primato della carità eretta a regola suprema.
Ma la carità, d’altra parte, non può essere cieca, e nemmeno ingenua o autolesionista. Con il franco realismo dell’incarnazione di cui è impastata, sa anche riconoscere le forze avverse che intaccano la possibilità di una risposta autentica ai bisogni della comunità umana. Non può rinunciare all’esercizio di un’attenta vigilanza. Può arrivare a svelare gli errori compiuti e i più tenebrosi tranelli orditi nelle varie pieghe della realtà del mondo, e prima ancora all’interno dello stesso spazio che si definisce a parole cristiano. Non è esentata in partenza dalla necessità di spingersi, quando le circostanze lo richiedono, fino a rovesciarsi nel linguaggio capovolto della condanna, del giudizio severo, fino al contrasto dialettico magari anche aspramente conflittuale per salvaguardare una verità negata, un bene svilito, un valore essenziale rimosso o calpestato.
Sul modello di Cristo che scacciò i mercanti dal tempio e mise alla berlina il fariseismo ipocrita dei sepolcri imbiancati, la voce della fede che si fa cultura può giungere anche a muovere i tasti della resistenza in opposizione a un deragliamento aggressivo che demolisce giustizia e verità e lascia la realtà del mondo più povera e sguarnita. Quando si risveglia il dibattito su ciò che è il bene compiuto dell’uomo, o si giunge a mettere in discussione i fondamenti di ciò che è umano in quanto tale (oggi si parla di questione antropologica radicale, amplificata dalla mentalità secolarizzata e dall’avanzata della tecnica invasivamente manipolatrice), il lavoro culturale per la presentazione in chiave di ragionevolezza di ciò a cui introduce la novità cristiana, in vista del bene di tutti, può assumere anche il vigore agonistico della voce profetica e missionaria che non teme di andare controcorrente, sottoponendosi al rischio del rifiuto da parte delle potenze dominatrici in un dato contesto umano.
Se fede, carità, cultura e missione si mantengono uniti nel loro sostenersi a vicenda, senza far prevalere una di queste dimensioni a scapito delle altre, l’unità organica dell’esperienza cristiana prende corpo in tutta la fecondità del ruolo anche solo di minoranza creativa che può oggi svolgere sulla scena del mondo. Se si esaltano unilateralmente soltanto la fede e l’impulso della carità, la cultura diventa servile, conformista, la missione si restringe nel suo raggio di influenza. Viceversa, senza la fede e la carità, cultura e missione si privano delle radici, riducendosi a un attivismo pieno di pretese, senza sostanza di vera novità. L’unità solidale di tutti questi aspetti dell’unico fenomeno cristiano non deve, d’altra parte, temere di essere insidiata dalle forze corrosive dell’ostilità: la sua consistenza sta in altro, la novità che produce non ricerca l’applauso e non ha bisogno del consenso pregarantito che spalanca al successo. Si può dire che è libera dall’esito: è attaccata alla sua originalità in-assimilabile e non la può mascherare se non rinunciando a qualcosa del suo patrimonio vivente.
Questo senso della dialettica con la quale può essere portata a misurarsi una fede viva che si fa cultura e giudizio sul mondo è uno snodo nevralgico del modo in cui ha invitato a scommettere sul valore decisivo della ragione un altro grande maestro della vita cristiana nel nostro mondo contemporaneo, quale è stato don Luigi Giussani. In un suo intervento del 1989 su “L’esperienza, orizzonte e sorgente della cultura” (riproposto in Tracce-Litterae communionis, 10, 2006, p. 90), parlando del soggetto cristiano (il “soggetto esistenziale… definito dal contenuto dell’autocoscienza”) e mettendolo drammaticamente in rapporto con la realtà spigolosa di un presente tutt’altro che amico e dialogante, non esitava a sottolineare: “Questo soggetto deve essere consapevole di essere in lotta con una realtà che è ostile a ciò che lui è. Quando ci si trova in un ambiente ostile, ci si difende. Se non si facesse in questo modo, vorrebbe dire che o si è ignoranti dell’ambiente o non si ha coscienza di sé… Il soggetto esistenziale, cioè il nuovo soggetto della storia, prende totalmente consapevolezza di quello che è (cioè che da soggetto esistenziale diventa soggetto storico) solo se prende consapevolezza che la realtà che lo circonda è diversa e ostile. Se si è sdraiati su un letto di piume e tra le piume un avversario ha messo un coltello aguzzo, su centomila piume si sente il coltello. Si è, insomma, astratti e irrealisti, se non si ha il senso di sé stessi. Questo è ciò che manca a tanto ecumenismo odierno, in cui tutti sono d’accordo, ma solo sull’ambiente e sulla lotta all’inquinamento. Noi non siamo così. Il soggetto esistenziale diventa soggetto storico prendendo coscienza dell’estraneità dell’ambiente in cui si è”.
E d’altra parte, in perfetta simmetria: “Il contenuto dell’autocoscienza che crea il soggetto nuovo come protagonista della storia, e perciò si oppone, rende più potente il giudizio sulla realtà e la valorizza. Non c’è niente che non ci interessa, non c’è nulla che noi censuriamo o eliminiamo, neanche il male, perché il male non esiste, perché il male è non fare il bene. Per sintetizzare la posizione di un soggetto di fronte a una realtà che è concepita e vissuta come ostile ricorro a una frase di san Paolo: ‘Tutto coopera al bene’. Per chi riconosce Cristo, tutto coopera al bene. Per questo non sentiamo nemico nessuno”.
Si tratta di un testo ricavato dagli appunti di un ascoltatore. Ma credo che non possa esserci dubbio sul fatto che il tema della “lotta contro la cultura dominante”, vista come l’altra faccia indisgiungibile dell’unico movimento di apertura che “mette simpateticamente in rapporto con tutto, con gli uomini, le cose e gli eventi”, rappresenti una dimensione cruciale nella concezione di educazione proposta dal fondatore di Comunione e Liberazione. Nel solco della necessaria ambivalenza dei due lati del dialogo tra ragione e realtà che fonda la cultura, si può prendere posizione in merito a un importante quesito che veniva sollevato qualche tempo fa nel blog di Páginasdigital.es: ¿Nos interesan las batallas culturales? (“Ci interessano le battaglie culturali?”). Viene spontaneo rispondere, alla luce del percorso che abbiamo seguito: perché no?
Ci sarebbe solo da aggiungere che la difesa apologetica del proprio patrimonio di identità e il dinamismo del confronto critico con le posizioni polemicamente ostili non devono per forza essere l’unica forma di espressione di una cultura animata dallo sguardo della fede. Ma neppure difesa e conflitto possono essere espunti a priori dal panorama di una cultura ostinatamente attaccata al bene supremo dell’umanità in cammino.
Se tutto riparte dal Dio fatto carne che ha abbracciato l’intero spettro dell’universo umano, la guerra contro il mondo non esaurisce la fisionomia integrale della presenza cristiana al suo interno. Ma se niente ci può più essere estraneo, neanche l’apertura dell’accoglienza incondizionata può essere l’unico volto di una proposta innestata nel travaglio dei drammi del nostro tempo. Volenti o nolenti, sulle questioni più esplosivamente controverse, che hanno a che fare con la vita e il destino di ciascuno, non c’è lo spazio fisico per una neutralità di astensione. L’afasia della rinuncia totale porterebbe a dimenticare che le barricate esistono davvero: non sono stati solo i cristiani prevaricatori (in passato non ne sono certamente mancati) che hanno contribuito a innalzarle. Fingere che non esistano comporta il rischio della diserzione, e forse la condanna a una subalternità colpevolmente incrementata. Mentre anche una posizione anticonformista e di assoluta minoranza, una voce baldanzosamente fuori dal coro, possono contribuire a plasmare la mentalità collettiva in un senso che non sia condizionato in modo esclusivo dalle sirene attraenti dei mezzi di comunicazione di massa, da un’arte di largo consumo e da una divulgazione scolastica del sapere allineati sui canoni di un pensiero appiattito, schematicamente omologante: moderno e luccicante nel suo involucro esterno, ma ristretto negli orizzonti, rigidamente fazioso, come una cappa soffocante che grava sul futuro del mondo vitale dei soggetti umani in libera relazione tra loro.
(2 – fine)
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