Il dolore dei ragazzi, il lavoro degli adulti

I direttori dei Dsm hanno lanciato l'allarme: i giovani sono malati. È un drammatico appello a tutti gli adulti: serve un nuovo rapporto con la vita

Il Coordinamento dei direttori dei Dipartimenti di Salute mentale italiani ha preparato un documento che ha inviato al presidente della Repubblica e al presidente del Consiglio per denunciare il drammatico aumento di autolesionismo, tentativi di suicidio, disturbi del comportamento alimentare e dipendenze fra i giovani tra i 14 e i 29 anni: quella che fino a qualche anno fa era dunque definita come una generazione fragile, oggi si presenta agli addetti ai lavori come una generazione fondamentalmente malata.

La malattia di cui si parla, tuttavia, non può essere ridotta a malattia mentale, ma riguarda una terribile sofferenza nel rapporto con la realtà, una sofferenza che – per un adulto – è tra le circostanze più difficili da accogliere e da accompagnare, perché non c’è niente che si possa fare o possa dare per ridurne la portata e l’intensità. Con un’espressione non del tutto corretta si potrebbe dire che il malessere della mente nel suo rapporto col reale ci mette di fronte ad un “guasto” che non è possibile aggiustare come si aggiusta un braccio rotto: si tratta di una sfida che interpella profondamente la nostra concezione del dolore.

L’Occidente, complice l’ondata di benessere tecnologico che lo ha investito a partire dagli anni Sessanta del secolo scorso, guarda al dolore come a qualcosa da eliminare. Nell’economia capitalista, infatti, il dolore racconta di un desiderio insoddisfatto, cosa inaccettabile per un sistema che si propone di esaudire ogni aspettativa con un bene di consumo adeguato che non lasci alcuno spazio all’insorgere della mancanza. Ogni bisogno che non può essere corrisposto, dunque, è una sconfitta: il dolore deve essere sempre fatto cessare al più presto.

Questo odio verso la fatica, il sacrificio o l’infermità, oltre a negare i meccanismi attraverso cui l’uomo impara e cresce, fa perdere di vista l’unica strada possibile di fronte al dolore, quella dell’amore. “Qualunque cosa finisce per svelare il suo segreto se la si ama a sufficienza” dice Washington Carver: quando una parte di noi soffre il problema non è anestetizzarla, bensì amarla. Dietro ad un ragazzo che pratica autolesionismo o che fa uso di sostanze c’è sempre un “pezzo di vita” da amare.

A volte siamo così presi dall’intensità del grido che i ragazzi emettono, da dimenticarci di guardare che cos’è che sta davvero gridando. Quando non amiamo una parte di noi, quella parte resta abbandonata e – prima o poi – ci viene a cercare, viene a chiedere la nostra attenzione, sempre con maggior violenza. Il punto, allora, non è farla tacere, ma ascoltarla. Torna alla mente un sonetto di Shakespeare che in modo drammatico esprime l’esigenza che si cela dietro ogni sofferenza mentale e umana: “Ti prego amore mio, non t’assordare nel mio grido, ma impara a leggere il silenzio del mio cuore”.

È una conversione radicale quella che è chiesta, una conversione che i protocolli in vigore nelle scuole, come le regole che spesso presiedono questi settori, non contemplano, perché è una conversione che richiede all’adulto di implicarsi, di mettersi in gioco, di non limitarsi a gestire il fenomeno con una procedura buona e giusta.

Ma perché un insegnante o un educatore, un genitore o un medico, dovrebbe arrivare a tanto, perché non cercare semplicemente il farmaco giusto o la terapia migliore? E qui c’è forse la sorpresa più grande che si cela in ogni sofferenza della mente: nel dolore dell’altro c’è sempre un pezzo del nostro dolore. È difficile stare di fronte all’abisso dell’altro se non si ha familiarità con il proprio abisso, se non si è fatta esperienza di una strada buona per sé.

Nel cristianesimo delle origini, i padri della Chiesa leggevano la croce di Cristo come il compimento dell’incarnazione, come la conquista definitiva che Dio faceva di ogni palmo dell’umano, al punto che sant’Atanasio arrivava a dire “Quod non est assumptum non est sanatum”, quello che non è assunto – toccato – non può essere guarito. I cristiani sostengono che, nel battesimo, la grazia di Dio tocca tutto l’umano, lo invade con il suo amore fino ad abitarlo, a prendere dimora presso di lui.

Assumono dunque ben altro significato le parole di Jung che un secolo fa diceva che “in ognuno di noi c’è un altro che non conosciamo”: è la passione per quest’altro da incontrare e da conoscere che manca a tanti genitori o insegnanti esasperati dalle richieste, dalle pretese e dall’aggressività dei ragazzi che stanno male. In tanti sono così distrutti dai figli e dai ragazzi da aver perso la forza di andare oltre, di guardare altro, di amare di più fino in fondo. Sono loro, i grandi, quelli da accompagnare. Sono loro, i padri e le madri, i prof. e i dottori, che non devono essere lasciati soli. È qui che serve tutta la forza della comunità, tutta la forza di un sistema che solitamente non si preoccupa di supportare la presenza nella relazione, ma ha fretta di aggiustare e di mettere a posto.

Nei cenni iniziali di questa riflessione si diceva che era improprio parlare della malattia mentale come di un guasto. L’uomo, infatti, non ha bisogno di essere aggiustato, ma di aggiustarsi, di sistemarsi, dentro un amore in cui possa davvero amarsi: tutto il lavoro della vita, tutto il lavoro dell’umano, consiste nella fatica di accomodarsi dentro un abbraccio da cui potersi guardare con verità, con libertà, con la forza di un perdono.

Perché questo accada occorre non avere fretta, occorre rallentare, permettere al dolore di emergere, non anestetizzarlo, ma ascoltarlo. È la lunga via crucis del Cristo che vive di ben quattordici stazioni prima di manifestarsi in tutta la sua drammaticità, prima di vivere quella morte che non è altro che l’anticamera della vera vita.

Solo così, per tutti noi e per i ragazzi, per i più giovani e per chi sta male, sarà possibile traguardare la speranza, sarà possibile dire quelle parole straordinarie che più di un secolo fa rappresentavano una delle più grandi intuizioni di Nietzsche, un uomo travolto e ucciso da un dolore che in fondo non ha mai saputo amare: “È vero, io sono una foresta e una notte di alberi scuri: ma chi non avrà paura delle mie tenebre, troverà declivi di rose sotto i miei cipressi ad aspettarlo”. Troverà, in fondo, l’amore di Dio.

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