I giorni di Pasqua, come quelli di Natale, sono pieni di auguri: le persone inviano gradevoli messaggi, immagini e frasi che esprimono contenuti e propositi. Nelle banche dati facilmente consultabili in rete, si reperiscono materiali sempre nuovi, idee da comunicare sulle chat personali, nei post, all’interno dei gruppi. È il modo con cui il nostro tempo riduce la festa ad un genere di consumo, qualcosa da cui è possibile assorbire un’emozione di breve durata che ci predisponga velocemente all’emozione successiva. L’importante, in fondo, è che la festa non ci disturbi e non ci cambi. Le parole, in questo modo, smettono di essere lo strumento con cui uno comprende di più quello che vive e diventano il rivestimento con cui ci allontaniamo e ci difendiamo dall’esperienza concreta.
Tutti gli articoli, tutte le riflessioni – perfino quella che scorre adesso sotto gli occhi di chi legge –, si prestano a fare il gioco di chi non ha alcuna intenzione di imparare qualcosa da quello che accade, ma desidera semplicemente perpetrare quello che già sa, quello che già conosce e lo rassicura.
Il paradosso è diventato ancora più grande nel giorno di Pasqua, la festa che introduce il cambiamento più grande e rivoluzionario della storia: un uomo che risorge dai morti. Siamo così abituati a sentire questa storia che quasi ci dimentichiamo che la morte è davvero la grande questione della vita: nostro marito muore, nostra moglie muore, i nostri genitori e i nostri figli muoiono. Ma muore anche la passione per il lavoro, muore l’amore fra due persone, muore il desiderio con cui uno comincia la facoltà o la scuola superiore. Non c’è una cosa che non finisca. E a questa fine non c’è scampo. Camus, volendo aggiungere l’asso in una partita a carte già vinta, diceva che “gli uomini muoiono e non sono felici”.
Non solo l’ombra della fine incombe su tutto, anche sull’ultimo neonato che viene alla vita, ma questa fine è accompagnata da un’oscurità più grande, quella dell’infelicità. Siamo infelici per le nostre scelte, per come siamo trattati, abbandonati, esclusi. Siamo infelici per una vita che non è andata o non sta andando come vorremmo. E tutto è maledettamente in corsa verso la morte.
In questo fosco quadro, che spesso anestetizziamo con un discorsetto preciso e pulito, con l’alcool o con la droga, col sesso o col cinismo dei soldi, accade qualcosa di inaudito: la scomparsa di un corpo. Duemila anni fa un corpo, un corpo di un morto, è letteralmente svanito nel nulla. In tanti dicono che è stato portato via nottetempo, in molti suggeriscono si tratti di un complotto senza precedenti, qualcuno sostiene di averlo visto vivo.
Ora, se nei primi due casi sarebbe per noi impossibile determinare con certezza quanto accadde in quella notte, nel terzo caso la soluzione sarebbe incredibilmente più lineare, più semplice: se un morto è risorto, e non è più morto, esso è ancora vivo. E se è vivo, si badi bene, significa che è possibile ancora oggi incontrarlo, al punto tale che la grande questione del cristianesimo non riguarderebbe tanto la storicità del fatto, bensì se Gesù Cristo sia o sia stato. Se è stato, Egli non è più e quello che rimane è un insegnamento eticamente potente; ma se Egli è, se Egli sta, se Egli è presente, allora il punto è poterlo intercettare, poterlo rivedere.
E, cosa non da poco, questo “poterlo rivedere” non sarebbe ad appannaggio dei soliti capi, dei soliti noti delle gerarchie di qualunque tempio, ma sarebbe ad un passo da tutti, ad un passo da te.
Perché in ognuno di noi il Mistero ha posto un cuore capace di riconoscerLo, capace di sobbalzare ogni qualvolta il Suo sguardo entri in contatto con il nostro sguardo. Un cuore che il tempo, e il cinismo di questo tempo, ha forse messo a tacere, ma che la Chiesa continuamente educa e risveglia, chiamandolo a guardare oltre, ad allargare quella ragione che è un tutt’uno con il cuore e che è affermazione indomita di verità, di bellezza, di giustizia e di amore.
Non si tratta, in questi giorni, di farci gli auguri di Pasqua. Non si tratta di spegnere con i nostri discorsi la sfida affascinante che ci aspetta: si tratta di capire se Colui che dicono essere vivo sia davvero vivo, se la Sua grande presenza possa guarire il nostro amore, il nostro matrimonio, la nostra famiglia, la nostra comunità e la nostra vita dalla fine orribile di un’esistenza senza senso votata all’oblio.
Se questo fosse vero, se questo fosse possibile, come apparirebbero grotteschi i nostri auguri pasquali! Come apparirebbero banali i nostri testi o le nostre devote immagini! Davvero tutto diventerebbe urgente: la nostra amicizia, il nostro pranzo di festa, la nostra preghiera, il nostro ritrovarci. Tutto avrebbe come unica tensione il testimoniarci a vicenda un fatto, con tanto di data e ora, capace di capovolgere tutto. Capace di far ricominciare un’intera vita. E questa sì, allora, sarebbe davvero una buona Pasqua.
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