Il mistero dell’io

- Fernando De Haro

La domanda sul significato della vita non può essere accantonata troppo facilmente come invece avviene ormai di norma

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“Cosa ci stiamo a fare qui?”, si è chiesto Manuel Jabois su El País la scorsa settimana. La stampa in Spagna ha smesso da tempo di essere solo un mezzo per trasmettere informazioni, alimentare la polarizzazione politica e fornire analisi. Sulle pagine di qualsiasi giornale, ogni giorno, si trovano le grandi domande. Jabois evidenzia: “Si nasce, si cresce e quando si raggiunge l’età adulta si perde di vista qualsiasi obiettivo”. E aggiunge: “Naturalmente la domanda non ha risposta”. Rimangono solo pochi “bei momenti” per stare bene.

La domanda è troppo drammatica perché il lettore accetti una risposta così rapida. Nel suo “naturalmente” vibra il desiderio che sia la risposta ci sia. L’editorialista concepisce la vita come lo spazio del non significato. In realtà, qualsiasi risposta sul significato basata sullo spazio e non sul tempo finisce per essere ideologica. Lo spazio è qualcosa di chiuso, perimetrale, delimitato da muri. Anche chi dice che la vita ha un significato politico o religioso e la racchiude entro un confine cade nell’ideologia. Il significato non può avere confini, non può essere concepito in forma spaziale. Il significato è accaduto, sta accadendo, accadrà. Il significato è legato al tempo, all’aperto. Se non è un avvenimento, è una prigione. Questo spiega perché la post-verità sviluppa sistemi di disinformazione autosufficienti e impenetrabili.

Teoricamente, all’inizio del XXI secolo, ci muoviamo tra spazi di non significato e spazi di significato chiusi in se stessi. Fino a quando la realtà non irrompe e provoca brecce nei muri. Pensiamo a cosa sta succedendo con l’Intelligenza Artificiale. Tutta la vertigine che provoca lo sviluppo dell’IA generativa ha a che fare con il potere illimitato che può raggiungere. Ma ciò che realmente ci fa paura è la possibilità di uno sviluppo della macchina che raggiunga l’autocoscienza. Smetteremmo di essere “unici”.

Il progresso dell’IA corre parallelo alla ricerca sulle neuroscienze. La stragrande maggioranza dei neuroscienziati, anche se non ci sono prove sufficienti, sarebbe disposta ad affermare che l’autocoscienza è un fenomeno chimico o fisico, che la coscienza corrisponde alla massima concentrazione possibile di informazioni. Il sistema neurale genera qualcosa di totalmente diverso dalle parti che lo compongono. Il cervello è composto da molecole, neuroni, circuiti, aree corticali. E all’improvviso, dalla quantità, nasce la qualità. La conclusione è semplice: quando lo sviluppo dell’IA raggiungerà una complessità simile al sistema neurale umano, la macchina sarà in grado di dire “io”.

Per formulare un’affermazione simile ci vuole più ideologia che scienza. Si tratta di confermare l’idea che la vita è uno spazio di non significato, Ma la sola velocità con cui vogliamo chiudere la sfida posta dall’IA e dalle neuroscienze rivela che si è aperta un breccia. C’è fretta di eliminare il mistero dell’io, perché è tornato a farsi presente.

Su un altro piano completamente diverso, quello dell’identità personale, succede qualcosa di simile. L'”epidemia di disforia” che sta scuotendo il mondo occidentale ha trasformato l’inferno del cambio di sesso (non è un cambio di genere) in un presunto paradiso per molti giovani. L’epidemia non si spiega solo con le pressioni di alcune lobby. Nella vita dell’adolescente emerge drammaticamente il mistero del suo stesso io generando disagio. E a quel punto si vuole raggiungere una soluzione rapida. Ed è facile percepire o far credere che un nuovo spazio per quell’io, un cambiamento nella natura biologica, sarà fonte di liberazione.

Sia nel caso delle neuroscienze che nel caso dell’identità biologica, l’io apre una breccia. Sono modi per implorare che accada qualcosa.

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