Non siamo destinati all’appiattimento

Viviamo un periodo contraddistinto da quello che Oliver Roy chiama appiattimento, che giuarda anche la dimensione religiosa

“Appiattimento significa orizzontalità, cioè scomparsa della trascendenza ma anche di ciò che sta sotto. E sotto non c’è solo Dio, ma anche l’inconscio, le nostre radici, l’umanesimo”. Così si esprimeva il politologo Olivier Roy, in una intervista al Sussidiario che anticipava il suo intervento alla recente edizione del Meeting di Rimini. Invitato, insieme ad Adrien Candiard, a parlare sul tema L’appiattimento del mondo e la domanda di verità, affermava che “tutto quello che ha a che fare con la complessità è eliminato. L’implicito è ridotto al minimo”. E aggiungeva: “Se non esiste un senso comune, implicito e condiviso, allora occorrono le regole, norme su tutto. E questo incrementa l’appiattimento. Anche la crisi della dimensione religiosa è legata a questo appiattimento”.

Ma come si manifesta nella nostra vita questo appiattimento di cui parla Roy, questa orizzontalità che vuole cancellare tutto ciò che è “sotto”? Si insinua non come una teoria, come un pensiero filosofico, ma costituisce il terreno che ci alimenta, l’aria che respiriamo e che tende sempre più a soffocarci, un’aria malsana perché privata dell’elemento fondamentale per vivere, “qualcosa che possa spiegare noi stessi”, come l’aveva definito Roy nell’intervista citata. Non possiamo infatti negare il senso di asfissia e il disagio che tante volte ci prende quando ci impattiamo in quella cinica banalità che vorrebbe spiegare e risolvere drammi e violenze, solo invocando richiami all’etica e chiedendo insistentemente regole. Ma è tutto il nostro quotidiano che non riesce a sottrarsi all’angustia dell’orizzontalità.

Orizzontalità è quel parlare di politica, di società, di lavoro, di economia, senza neanche più domandarsi se esistano ragioni ideali o valori cui ispirarsi, accontentandosi che siano garantiti alcuni interessi, i propri innanzitutto. Orizzontalità è raccontare la vita, le cose che accadono, facendo ben attenzione a non esprimere giudizi, a non mescolare i fatti con il calore dell’esperienza umana che li abita. Perché sarebbe rischioso, compromettente e potrebbe distruggere quella confort zone che ci siamo costruiti. Orizzontalità è guardare al male del mondo, al dolore, tentando con testarda tenacia di trovare colpevoli, senza accettare il dramma che possano esistere domande che forse invocano una risposta un po’ più profonda della nostra misura, una risposta che venga appunto dal profondo dell’Essere. Orizzontalità è guardare i comportamenti scomposti e trasgressivi di tanti nostri giovani, invocando solo regole e punizioni (talora probabilmente inevitabili) senza lasciarsi interrogare dal grido, dalla domanda che si nasconde in quei comportamenti omologati, in quegli sguardi accigliati e spesso incattiviti da una mancanza di senso che non trova risposta. Ma orizzontalità è anche ignorare e censurare quel ribollire del cuore che ci capita di provare davanti a ciò che è vero e bello, davanti a un gesto, a una persona che guarda te e il mondo con una profondità e un affetto che fanno respirare. Cedere a quel fascino sarebbe uno sconvolgimento, sarebbe correre il rischio della libertà.

Già nel 1987 don Giussani aveva profeticamente descritto la situazione nella quale oggi ci troviamo. “I desideri dell’uomo, e quindi i valori, sono essenzialmente ridotti. Il panorama della vita sociale diventa sempre più uniforme, grigio. Nell’appiattimento del desiderio ha origine lo smarrimento dei giovani e il cinismo degli adulti”.

Ma cosa può risvegliare questo desiderio appiattito? Cosa può rimettere in moto l’umano infiacchito da troppa stremante orizzontalità? La riaffermazione di valori giusti o di verità certe ma incapaci di mostrare la loro pertinenza alla vita concreta? La battaglia contro i nuovi diritti propugnati dalla cultura secolarizzata? La realtà del nostro tempo mostra che entrambe le ipotesi appaiono piuttosto improbabili.

In un agile saggio fresco di stampa, dal titolo La profezia di CL, il giornalista Marco Ascione, attraversando momenti della storia di Comunione e Liberazione nell’ottica della sua collocazione “tra fede e potere” come recita il sottotitolo, entra nella questione di come l’esperienza cristiana possa rapportarsi a questo nostro tempo, alla modernità. E lo fa a partire da un docufilm dal titolo Vivere senza paura nell’età dell’ incertezza, realizzato per il Meeting di Rimini del 2021. Una regista non cattolica, Giulia Sodi, immagini suoni e parole che documentano lo smarrimento dell’oggi, tre pensatori cristiani che dialogano (Julián Carrón, presidente della Fraternità di Comunione e Liberazione fino al 15 novembre del 2021, il filosofo canadese Charles Taylor e Rowan Williams, anglicano ex arcivescovo di Canterbury). E dialogano, come scrive Ascione, esaltando il valore della testimonianza, riconoscendo che “la realtà è già oltre le regole, il diverso da noi è un fatto che non si può cancellare”.

Il docufilm diviene per Ascione lo spunto per leggere il modo con cui Julián Carrón, nel corso dei 16 anni alla Presidenza di CL, ha interpretato e vissuto il rapporto con la modernità. Un modo che il giornalista sintetizza così: “La battaglia della modernità non si disputa infilandosi l’armatura sui diritti”. “Perché ciò che manca all’uomo di oggi, secondo Carrón, non è la ripetizione verbale dell’annuncio, ma l’esperienza: il vedere di persona, la verifica dei fatti”. E le pagine sull’argomento si susseguono in modo incalzante. “Per don Julián partire dall’etica è sempre stato un modo sbagliato di comunicare il cristianesimo al mondo. Il teologo spagnolo sceglie la testimonianza a discapito della militanza: la politica non è il calzascarpe del cristianesimo”.

Continuando a percorrere i 16 anni della “Cl a trazione spagnola”, come la definisce, Ascione cita l’intervista del 2017 alla rivista spagnola Jot Down in cui Carrón affermava: “La grande sfida che ha davanti a sé la Chiesa oggi è testimoniare la fede in modo tale che possa sfidare la ragione e la libertà dell’uomo”. E ancora sempre Carrón in Jot Down: “Noi cristiani non possiamo fondarci su nessun tipo di potere, ma unicamente ed esclusivamente sulla bellezza di ciò che viviamo”.

Ecco cosa può risvegliare il desiderio! L’incontro con qualcosa di bello. La bellezza di un’esperienza umana, ma anche la bellezza struggente di un cielo stellato, di una musica, di una poesia. Perché, come diceva Baudelaire, le lacrime suscitate da una bella poesia o da una musica sono il segno “di una natura esiliata nell’imperfetto che cerca un paradiso rivelato”. La commozione di fronte alla bellezza svela ciò per cui siamo fatti, mette a nudo il nostro desiderio. Non siamo destinati all’appiattimento, ma a camminare verso un “paradiso rivelato”. Ci è chiesto solo di non abbassare lo sguardo perché la bellezza di questo paradiso possibile può svelarsi in modo imprevedibile in ogni istante.

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