“Non sono mai stato tanto attaccato alla vita”

Può la morte non essere nemica della vita? Sì, solo se tutto ha senso. Un Senso che si chiama Destino, e che costituisce il nostro io fin nelle viscere

Una delle più belle e struggenti poesie di Ungaretti inizia gridando l’atrocità di un dolore. Il dolore lacerante del poeta che l’antivigilia di Natale del 1915, in una trincea del Carso, si trova a vegliare per l’intera nottata un compagno morto, “massacrato con la sua bocca digrignata”. Ma negli ultimi versi lo strazio della morte si scioglie in una melodia intensa: “non sono mai stato tanto attaccato alla vita”. Perché quanto più è lacerante il morire, “questo supremo scolorar del sembiante” come lo definiva Leopardi, tanto più ci accorgiamo di essere fatti per la vita, di essere profondamente attaccati alla vita.

La morte di un caro amico o di una persona alla quale ci si era legati per sempre nella buona e nella cattiva sorte, così come di un figlio o di un genitore, sono una lacerazione, la rottura di un legame, lo strazio di una mancanza che contraddice affetti e sentimenti. È un dolore che conosciamo e che anche di recente ha segnato l’esperienza di tanti di noi, acutamente e intensamente. Una contraddizione di tale portata che costringe a chiedersi il perché.

Pensavamo di saperla ormai lunga sulla vita e sulle sue contraddizioni, avevamo acquisito un buon grado di scetticismo, sapevamo che si nasce e poi si muore, eppure quando il cuore lacerato è il tuo, quando l’affetto straziato apparteneva alla tua vita, allora la saggezza a buon mercato non basta più, l’invito a farsi forza diventa solo un penoso e insopportabile rituale.

Perché non siamo fatti per la morte. Al contrario, siamo fatti per un “per sempre”. E se abbiamo nelle viscere questa struggente dimensione dell’eternità, proprio l’esperienza di qualcosa che la contraddice ci costringe a tenere aperta la domanda e a cercare una possibile risposta. Abbiamo bisogno di vedere l’eternità. Un’eternità che noi non sappiamo costruire con le nostre mani, ma che è presente nell’io di ogni uomo. Don Giussani aveva detto che “ci vuole un po’ di coraggio logico” per riconoscere che “l’io non esaurisce la sua consistenza in ciò che di lui si vede e si constata morire. C’è nell’io qualcosa di non mortale, di immortale!”. È questa scintilla di eternità che portiamo nel cuore, che ci fa desiderare di vedere l’eterno, di toccarlo, qui, vicino a noi.

Può sembrare un paradosso, ma in questi tempi, proprio intorno alla bara di amici, abbiamo sentito, nel bel canto di Anas, riecheggiare la parola Festa. Marco, Vittoria, Mario, Carras, Andrea, Corrado, e tanti ancora. Amici i cui nomi pronunciamo con commozione, amici che abbiamo accompagnato nel loro ultimo tratto di strada, certi che hanno raggiunto il Destino, il Mistero eterno che tutti desideriamo, “quel regno celesto” diceva Jacopone da Todi “che compie onne festo che ‘l core ha bramato”. E proprio la bellezza di una festa abbiamo cantato, “la festa sta per cominciare, corri e non fermarti amico mio. È la festa della fine del male sulla riva del mare di Dio”.

Abbiamo visto il cordoglio trasformato in certezza, mentre le lacrime bagnavano occhi pieni di letizia. Abbiamo visto volti invasi dal pianto e da una commossa gratitudine. Gratitudine per l’esperienza di pace, gratitudine perché l’amico, lo sposo, la sposa, è ora terribilmente felice e vede il Volto del Mistero, gratitudine perché l’abbraccio degli amici rende presente la tenerezza di Dio. Incontrare persone che davanti alla morte vivono un’esperienza così introduce ad una nuova dimensione della vita, perché anche la morte entra a farne parte. Anche la morte non è più nemica.

C’è una indiscutibile evidenza in chi arriva alla morte con questa pace nel cuore e nel volto, così come in chi dalla morte si è visto strappare lo sguardo e la voce di una persona amata. L’evidenza che nella realtà, in mezzo ai nostri corpi carnali, vive un’ altra presenza. C’è un Mistero presente. Senza il riconoscimento di questo fattore l’esistenza umana non potrebbe essere affermata nella sua totalità di vita e di morte. E l’evidenza di questa Presenza si mostra come un fatto concreto nello sguardo e nella vita di persone che ne fanno esperienza e che noi possiamo solo augurarci di incontrare. E quando le incontriamo ci torna alla mente che, nella Palestina di duemila anni fa, un uomo si era lasciato massacrare ed uccidere per salvare gli altri uomini.

Lui però nella tomba non era rimasto a lungo. All’alba del terzo giorno era misteriosamente ma realmente risorto. Lui aveva vinto la morte e aveva promesso che sarebbe rimasto in mezzo agli uomini, con noi, per sempre, fino alla fine del mondo. È Lui che ancora oggi, nella infinitezza del Suo amore e della Sua misericordia, tende la mano al moribondo. È Lui, il Destino, che dà senso ad ogni morte e compie totalmente ogni vita. Ma se la grandezza di questo Mistero, intessuto di dolore e di amore, accade per l’amico, per la sposa, per lo sposo, per il figlio come per il genitore, per i nostri “cari”, che abbiamo accompagnato con il calore lindo e decoroso della nostra compagnia, la stessa grandezza accade nel fuoco devastante dei territori bombardati in Terra Santa o in Ucraina, così come nello straziante squallore di chi lancia il suo ultimo sguardo alla luce di questa terra solo e per tutti sconosciuto.

Tutte queste morti hanno senso. Tutte queste morti segnano l’istante in cui per ognuno si è compiuto il destino. Questa è l’unica certezza che dà vera dignità all’esistenza umana nella sua totalità. E che ci fa desiderare un mondo in cui questa dignità, della vita come della morte, valga ovunque e per tutti. Veramente il riconoscimento del Mistero presente può cambiare il mondo.

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