Tecnologia e mercati paiono convergere nel minacciare la sopravvivenza della "stampa". Per questo c'è chi invoca nuovi sostegni ai media
Il settore dei media è in fermento. L’ipotesi che Gedi ceda il secondo e il terzo quotidiano del Paese non è più una semplice indiscrezione. Nell’ultimo mese la conclusione dell’offerta di Mps su Mediobanca ha intanto portato al cambio di proprietà di una quota di minoranza di Rcs: editore del primo quotidiano italiano. E nell’operazione ha avuto parte attiva il gruppo Caltagirone: editore di tre altre storiche testate nazionali.
Lo spunto per una breve riflessione non è tuttavia lo sviluppo o l’esito del “risiko”. Quest’ultimo riaccende invece i fari su una crisi generale dell’editoria giornalistica che si prolunga da molto tempo. I suoi nodi problematici sono noti e non riguardano solo l’Italia. L’irrompere dell’Intelligenza artificiale in una transizione digitale già avanzata sta mettendo ulteriormente sotto pressione l’industria dell’informazione.
Tecnologia e mercati paiono convergere nel minacciare la sopravvivenza stessa della “stampa” così com’è stata conosciuta finora (è citata in quanto tale dalla Costituzione italiana, per definire una delle libertà fondamentali che reggono la democrazia nazionale). E la crisi geopolitica accentua solo la pressione diretta su giornali e giornalisti, in trincea contro le fake news che non sempre provengono dalle forze identificate come “nemiche dell’Occidente democratico”.
Di fronte a una “permacrisi” che investe in termini drammatici anche l’editoria e la professione giornalistica non cessano gli appelli a favore di aiuti pubblici che superino per quantità e qualità quelli già operativi. La prospettiva diventa plausibile mano a mano che diventano evidenti le difficoltà sistemiche della rete delle imprese private che – Rai a parte – mantiene attivo il sistema informativo nazionale, all’interno di quello europeo.

Se un neo-statalismo e una nuova attenzione al controllo nazionale sta interessando importanti comparti dell’economia, quello dell’informazione si presenta d’altronde particolarmente delicato, anche in chiave di possibili sostegni. Se i giornalisti, in particolare, difendono la loro indipendenza – dai poteri pubblici non meno che dalle ingerenze degli editori – sono regolari anche i segnali di cautela della politica o della società civile sui rischi di “salvare” non i giornali ma i loro proprietari; e non i giornalisti ma una loro presunta corporazione.
Un contesto naturalmente complesso – come lo è d’altronde lo snodo dell’editoria d’informazione, centrale nel sistema-Paese – non può e non deve tuttavia frenare sul nascere una riflessione sul presente e sul futuro del settore. E in quadro non sembrano inimmaginabili nuovi Stati generali dell’informazione, ma a patto che siano diversi da quelli – alla fine inconcludenti – chiamati nel 2019 dal sottosegretario alla Presidenza Vito Crimi (M5S). L’auspicio è che possano essere invece più vicini – nell’ispirazione – al tavolo della concertazione che nei primi anni ’90 il Premier Carlo Azeglio Ciampi condusse in porto per preparare il sistema-Paese all’Unione europea.
A quel tavolo imprese e sindacati assunsero precisi impegni reciproci (la cosiddetta “politica dei redditi”, a cavallo fra industriale e del lavoro) sotto la regia attiva del Governo, detentore della leva fiscale e di quella della spesa.
Le grandi rotte di un possibile piano per i media italiani sembrano essenzialmente tre: l’accesso alla professione giornalistica di figure giovani, capaci fra l’altro di portare competenze “stato dell’arte”; l’incentivo-premio all’innovazione; e la promozione della crescita dimensionale di aziende e gruppi, con collaudate agevolazioni per aggregazioni e ristrutturazioni.
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