L’unica cosa che conta

Il metodo di Dio è quello di rivolgersi a un tu personalissimo, il nostro. E ci chiede di aprire il cuore. L'iniziativa è sua: "Ti ho amato"

“Accresci in noi la fede!” (Lc 17, 5). Questa richiesta degli apostoli potrebbe essere quasi scambiata per uno slogan da manifestazione, decisamente originale, se non fosse scritta nel vangelo. Prima di questa richiesta Gesù aveva detto loro: “State attenti a voi stessi! Se un tuo fratello pecca, rimproveralo; ma se si pente, perdonagli. E se pecca sette volte al giorno contro di te e sette volte ti dice: Mi pento, tu gli perdonerai” (Lc 17, 3-4).



L’urgenza del perdono nei confronti dell’altro aveva spinto gli apostoli a domandarne l’origine: la fede. Senza fede è impossibile il perdono, almeno nei termini radicali proposti da Cristo. Non solo. Gli apostoli chiedono che la fede si accresca in loro, prima che preoccuparsi del fervore altrui. Hanno intuito che il metodo di Dio è quello di rivolgersi a un tu preciso, attendendo la sua risposta, incoraggiando il suo passo, come pare sottolineare il Papa nel titolo della sua prima Esortazione apostolica firmata proprio ieri mattina: Dilexit te.



Che ci sia Qualcuno in attesa di me, del mio volto, della mia vita, del mio cuore, e che mi preferisca, non può che spiazzare chiunque abbia conservato un minimo di lealtà con sé stesso. La risposta di Cristo alla richiesta degli apostoli, però, è molto radicale: “Se aveste fede quanto un granello di senape, potreste dire a questo gelso: ‘Sràdicati e vai a piantarti nel mare’, ed esso vi obbedirebbe”.

Papa Leone XIV
Papa Leone XIV, celebrazione in San Paolo fuori le mura (ANSA 2025, Vatican Media)

La loro fede non va solo accresciuta, ma generata di nuovo. Quel “se aveste fede…” suona come un campanello d’allarme: “Guardate che a voi manca la fede”. Credevano che fosse questione di sfumature, di qualche piccola aggiunta, di un ritocco, e invece Gesù propone una rinascita.



Osservandoli si sarà accorto che i suoi parlavano come parlano tutti, reagivano come tutti, litigavano come tutti, prendevano iniziativa come la prendono tutti, sparavano giudizi come chiunque altro, con quella ottusità mondana descritta efficacemente dall’Arcivescovo di Milano nell’omelia per le ordinazioni diaconali di ieri:

“C’è una sapienza e una competenza che accumulano una quantità incalcolabile di informazioni, di nozioni, di procedure, di programmi. C’è una memoria che ricorda ogni particolare con impressionante precisione. C’è una cultura che sa tutto, che sa fare tutto. Eppure è una sapienza ottusa: sa tutto, ma non sa perché; non sa dire in che cosa possiamo sperare, per che cosa vale la pena di accumulare competenze, non sa dire se questo universo in cui abitiamo abbia un senso o sia una meraviglia insensata”.

Poi Gesù ha aspettato il momento giusto, con pazienza, perché arrivasse da loro il desiderio di un passo, perché si svelasse in loro una fede rimasta senza domande. E quel giorno è arrivato: “Se aveste fede”, che vuol dire: “Se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli” (Mt 18, 3), e ancora: “Quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: ‘Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare’”.

È una semplicità che occorre domandare sempre, un ritorno all’autenticità della nostra natura, una originalità di posizione nella realtà che non si appoggia a strategie ma all’unica cosa che conta: dilexit te.

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