Mario Draghi ha invitato l'Ue a spingere sull'IA, che al momento sta però incidendo non poco sull'occupazione europea
Mario Draghi sprona l’Europa a correre sulle vie dell’Intelligenza artificiale. Difficile dar torto in sé a un’analisi che ricorre – correttamente – alla cassetta degli attrezzi dell’economista: nella quale non manca la celebre categoria schumpeteriana della “distruzione creatrice”.
La storia della crescita economica – anzi dell’uscita dell’economia globale da una millenaria dinamica di sussistenza malthusiana – è iniziata tre secoli fa e poi proseguita ininterrotta a colpi di shock tecnologici.
È oggi quasi lapalissiano osservare come l’IA stia inducendo nell’economia – e nella società umana attorno – una soluzione di continuità di magnitudine mai vista (perfino Leone XIV ha voluto porla a sfondo del suo pontificato appena iniziato). È sufficiente osservare la crisi geopolitica che si va dipanando da quattro anni: l’Ucraina e il Medio Oriente sono stati in misura non secondaria laboratori privilegiati di sviluppo accelerato dell’IA, come lo fu la Seconda guerra mondiale per il nucleare. E quando Draghi guarda esplicitamente alla Cina come front runner nella corsa planetaria all’IA sta additando lo stesso “laboratorio” da cui è sfuggito il virus del Covid; non meno di Taiwan, fronte più che potenziale di prosecuzione calda di una nuova Guerra Fredda.
Il teorema-ricetta è comunque chiaro e riassume una volta di più l’Agenda dell’ex Presidente della Bce per il suo continente. L’Ue non può che porre l’IA in cima alle sue priorità politiche e strategiche e deve concentrarvi tutti i suoi “capitali”, finanziari e umani. Forse i secondi ancor più dei primi: i giovani europei devono imparare (anzitutto a scuola) a essere produttori e gestori di IA, in tutte le sue applicazioni, cioè in tutti gli ambiti della vita umana e sociale.

Basta però scorrere la stampa europea per apprendere quanto dolorosa e costosa si profili già la transizione IA. Abn Amro – grande banca olandese – ha appena annunciato di voler licenziare 5.200 dipendenti, un quinto del suo organico odierno. Telefonica de Espana – un campione europeo delle tlc, per alcuni anni anche azionista dell’italiana Tim – vuole esodare 5mila dipendenti: al momento quelli di età superiore ai 55 anni.
In Germania la Volkswagen ha lamentato che la prevista uscita incentivata di 20mila addetti (per l’IA non meno che per l’impasse Ue sull’auto elettrica o per i dazi di Donald Trump) stia procedendo più lentamente del previsto. In Italia due dei tre principali quotidiani del Paese sono in vendita: l’editore – il più importante capitalista industriale e finanziario nazionale – è un convinto assertore della transizione digitale dell’informazione, ma forse proprio per questo non ritiene di poterla realizzare a partire dai media tradizionali di sua proprietà.
Servizi finanziari, Ict, mobilità, media: tutti segmenti di prima linea nella “guerra dell’IA”. Un leader come Draghi sprona verso i posti di lavoro di domani (e non ha torto). I posti di lavoro di oggi, tuttavia, iniziano a sparire “maledetti e subito”. La soluzione non c’è e come sempre nella storia reale, “qui e ora” non esistono bacchette magiche e non esisteranno mai. Non è però mai un buon motivo per lasciare che la “distruzione creatrice” proceda senza guida a distruggere oggi per ricreare domani.
Nella democrazia occidentale – che l’Europa anzitutto dice di voler difendere – il compito è anzitutto di chi viene via via chiamato a governare i singoli Paesi e la loro Unione. Ma non è una missione che possono compiere da soli, meno che mai immaginando di poter decidere in poche “stanze dei bottoni” per centinaia di milioni di europei. Quello è il “modus vivendi” – prima ancora che “governandi” – della Cina. È uno dei tanti problemi – non l’ultimo – che cominceranno a essere sciolti nel secondo quarto del ventunesimo secolo.
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