I social network sono sotto accusa perché ci rubano l'attenzione, ma c'è da chiedersi se sappiamo a cosa dedicarla davvero
“L’attenzione è la grande materia prima del nostro tempo”, ha scritto Ricardo Dudda, un giovane e brillante editorialista spagnolo. Dudda ha ricordato che Elon Musk ha perso 30 miliardi di dollari quando ha acquisito il social network Twitter, che ha ribattezzato X. Non gli importava. Stava comprando l’attenzione di persone in molti angoli del pianeta, un tesoro che vale molto di più di tutti i soldi apparentemente buttati via.
Ci lamentiamo che i social network ci hanno rubato l’attenzione; ci lamentiamo che il capitalismo digitale progetta algoritmi che conoscono la nostra psicologia meglio di noi stessi. E non riusciamo a pensare ad altra soluzione che invocare la disciplina: vogliamo un’educazione al sacrificio per distogliere lo sguardo da coloro che ci rubano così tanto tempo.
Il problema non è come difenderci dai ladri di attenzione, ma a cosa vogliamo dedicare quell’attenzione. Sappiamo dove vogliamo focalizzare la nostra attenzione? Ogni ascetismo è sconfitto in anticipo se si affida solo all’energia della volontà. Un vero desiderio è già una forma di possesso. Al contrario, i propositi portano con sé il vuoto dell’irraggiungibile e una sconfitta certa.
Immaginiamo per un attimo di non avere tutte le tecnologie e le aziende che competono per la nostra attenzione. Perché dovremmo desiderare l’attenzione che abbiamo perso? Perché dovremmo desiderare la libertà?
“Se avessimo il controllo completo sulla nostra attenzione e una sorta di iperfocalizzazione che ci permettesse di dirigerla a piacimento verso qualsiasi cosa, per tutto il tempo che vogliamo, cosa faremmo di questo superpotere?”, si chiede Chris Hayes, che ha appena pubblicato il libro “The Sirens’ Call: How Attention Became the World’s Most Endangered Resource” (Il richiamo delle sirene: come l’attenzione è diventata la risorsa più in pericolo del mondo). La tragedia è che non sappiamo come rispondere alla domanda di Hayes o che rispondiamo in modo impreciso.
Qualche giorno fa, una giovane donna rimasta disoccupata negli Stati Uniti a seguito di licenziamenti di massa nel settore pubblico ha raccontato a un giornale di essere caduta in uno stato depressivo. In quella situazione, la sua attenzione è stata catturata dall’app Finch, una “applicazione per il benessere” che funge da strumento di auto-cura. L’app impartisce comandi “affettuosi”: “Alzati dal letto”, “Lavati i denti”, “Bevi acqua”.
Nonostante la sua dipendenza, proprio tramite Finch, il destino le ha donato un incontro offline con un ex collega. Si è innamorata di lui e ha iniziato a prestare meno attenzione a Finch. Ma dopo un po’, non sapeva più cosa fare del suo nuovo amore. Alla fine, si è pentita di aver mantenuto quella relazione perché la rendeva “vulnerabile alle ansie che potevano assalirla”. Aveva paura della libertà di attenzione che si era concessa.
Lo sforzo di riconquistare l’attenzione, se accompagnato da una triste stanchezza, se ci seppellisce sotto il pessimismo della volontà, non è una virtù. Lo sforzo è umano solo quando obbedisce a qualcosa che in precedenza ci ha attratto e ci ha dato l’energia per iniziare a muoverci. Solo se conosciamo il nome e il cognome della soddisfazione che inseguiamo, a cui vogliamo dedicare la nostra attenzione, il nostro sguardo si libera.
Pertanto, l’intelligenza che la vita ci dona ci porta a prendere poco sul serio chi ci parla in modo ricorrente e ossessivo del sacrificio e delle fatiche che dobbiamo sopportare in nome del dovere o per una buona causa. Quando c’è qualcosa che ci interessa davvero, non siamo tormentati dalla distrazione perché sappiamo che ci torneremo, ancora e ancora, con una tenacia che ci sorprende. Quando desideriamo, non rinunciamo, per paura, alla libertà, a quegli incontri romantici nel mondo offline che il destino ci regala.
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